"Quelli che interrogavano avevano tutta l'efficienza, la freddezza e il controllo di sé degli italiani che sparano senza che nessuno spari loro. […] «Perché non sei col tuo reggimento?» […] «Non lo sai che un ufficiale deve restare coi suoi uomini?» […] «Sei tu e la gente come te che hanno permesso ai barbari di calpestare il sacro suolo della patria.» […] «È a causa di tradimenti come il tuo che abbiamo perduto il frutto della vittoria.» […] «Abbandono di truppa, condannato alla fucilazione.»" - Addio alle armi, H. Hemingway
Ho citato Hemingway perché all'Italia manca un proprio romanzo della Grande Guerra. Gli altri Paesi che vi presero parte ne hanno almeno uno, divenuto poi un classico della letteratura del Novecento, legato alla biografia dell'autore-soldato. Il romanzo della Grande Guerra combattuta sul fronte italiano, invece, l’ha scritto un americano. Ciò accadde perché la Prima guerra mondiale in Italia ha prodotto il fascismo, e il regime fascista ha avuto uno dei suoi pilastri retorici nel culto dei caduti e nel rancore per la "vittoria mutilata" di dannunziana memoria, da cui trasse linfa per le guerre
successive. La censura di regime ha impedito alla generazione di italiani che aveva vissuto il primo conflitto mondiale un’elaborazione critica dell'esperienza bellica, nonché la collocazione in prospettiva degli eventi vissuti attraverso il racconto di un’esperienza individuale che si fa specchio dell’esperienza collettiva.La memoria è stata imposta come memoria unitaria, che fosse condivisa oppure no, pietrificata nei grandi sacrari monumentali, nella tomba del milite ignoto, nelle parate commemorative.
Aver mancato quello spaccato di autobiografia italiana significa non aver fatto i conti con un nodo storico fondamentale e non aver mai elaborato le pulsioni che portarono il Paese in guerra. Significa non disporre del racconto pubblico dei reduci, che possa essere letto, discusso, nonché speso contro la retorica guerrafondaia prima e di regime poi. Significa altresì tollerare equivoci e silenzi che si sono protratti nel tempo, fino a un'altra guerra mondiale e oltre, fino a noi. Nel corso di un secolo sulle vicende della mattanza che fu la Grande Guerra si sono accumulate narrazioni tossiche che in occasione delle celebrazioni di stato tracimano nel discorso pubblico e vengono strumentalmente utilizzate per riplasmare gli eventi in funzione del momento.
Si sono a lungo taciute le vere ragioni che portarono l'Italia, paese aggressore, ad entrare in guerra. Ragioni collimanti con un disegno espansionistico per il quale la maggioranza del paese non avrebbe voluto versare una goccia di sangue. Ragioni che ebbero come estrema conseguenza l’avvento della dittatura fascista. Se volessimo individuare il momento che segna la fine dell’Italia liberale uscita dal Risorgimento, non dovremmo pensare alla marcia su Roma del 1922 o alle elezioni del 1924 con gli squadristi ai seggi, bensì al colpo di stato bianco del re Vittorio Emanuele III e del primo ministro Salandra nel 1915, con cui il Parlamento a maggioranza neutralista venne messo davanti al fatto compiuto dell’entrata in guerra; effettuando una giravolta per la quale il Regno d'Italia fu disprezzato perfino dai suoi nuovi "amici" e dichiarò guerra all’Austria, fino a poco prima sua alleata.
Si è a lungo equivocato la presenza e la parte della massa di ignari mandati al macello, a combattere su pareti di roccia spesso innevate, trasformando l'arco alpino in un campo di battaglia fatto di trincee e baraccamenti in cui persero la vita migliaia di uomini. Tra costoro i soldati passati per le armi addirittura senza processo, come descritto da Hemingay, facendo spesso ricorso alla intollerabile pratica della decimazione, o per esecuzione diretta e immediata da parte dei superiori. Si trattava di sbandati, disertori, insubordinati, responsabili di rifiuto individuale o collettivo fucilati per mano amica in nome di un codice militare ottocentesco spietatamente applicato anche a questi reati grazie alla circolare Cadorna.
La Grande guerra fu anche dolore, disperazione e fame patiti lontano dalle trincee, nelle case dalle dispense svuotate da un'economia di guerra che ingrassava i capitali dei grandi gruppi industriali.
Ancora oggi qualcuno prova a raccontarci la Prima guerra mondiale come una grande e dolorosa esperienza unificatrice del Paese. È così che ci viene riproposta la memoria condivisa dell’evento, configurando un'Italia unita nella grave sorte e nella crisi, senza conflitti, se non quelli contro chi viene da oltre confine. In realtà essa rappresenta tuttora l’agente patogeno di processi di costruzioni d’identità artificiose quanto odiose per razzismo, identitarismo e revanscismo mai sopito. Quel conflitto più che altro portò sterminate masse di persone a contatto diretto con una morte che, nelle sue vere circostanze e modalità, non era divulgabile né raffigurabile. Troppo sconveniente e demoralizzante raccontare una guerra infradiciata nel sangue, nella melma fatta di liquami, di cibo marcio e vomito, vissuta in promiscuità forzata tra cadaveri in putrefazione e finita sussultando e contorcendosi nell'atto di stringersi il ventre squarciato o recuperare brandelli di arto mozzati, imprecando e urlando come un animale in trappola. Una guerra così non poteva essere raccontata. Meglio raccontarne un'altra."
Nessun commento:
Posta un commento