Questa estate abbiamo incontrato Clementina che ci ha regalato un suo racconto. E’ la storia di Ezio Battistini che ebbe dieci persone care ammazzate nella strage nazista di Sant’Anna di Stazzema.
Eccola. Non abbiamo tolto né aggiunto nulla. Grazie Clementina.
Vi
sono momenti nella vita in cui il destino ci costringe ad abbandonare ciò che
ci è più caro, e nulla ci è consentito di poter fare per porre rimedio agli
eventi più dolorosi.
In
Italia la guerra scoppiò nell’anno 1940: io avevo superato da poco la soglia
dei venti anni e l’arrivo della temuta “cartolina” per la chiamata alle Armi
creò ansia e preoccupazione nella mia numerosa famiglia. Eravamo in tanti dieci figli, ed io il maggiore mi rendevo conto come la mia assenza avrebbe lasciato un grande vuoto (oltre alla paura che mi succedesse qualcosa; sapevo di rappresentare per mio padre un valido aiuto nel lavoro dei campi e della vigna, nonché per la cura degli animali, e, quando ci sedevamo tutti a tavola ( compresi i nonni e gli zii che vivevano con noi) leggevo sui loro volti il profondo dispiacere per quanto stava per accadere. Mia madre, poi, non se ne dava pace!
creò ansia e preoccupazione nella mia numerosa famiglia. Eravamo in tanti dieci figli, ed io il maggiore mi rendevo conto come la mia assenza avrebbe lasciato un grande vuoto (oltre alla paura che mi succedesse qualcosa; sapevo di rappresentare per mio padre un valido aiuto nel lavoro dei campi e della vigna, nonché per la cura degli animali, e, quando ci sedevamo tutti a tavola ( compresi i nonni e gli zii che vivevano con noi) leggevo sui loro volti il profondo dispiacere per quanto stava per accadere. Mia madre, poi, non se ne dava pace!
In
paese c’erano altri ragazzi della mia età; rammento che ci radunammo per
discutere l’avvenimento ma stranamente non eravamo tristi; forse furono
l’entusiasmo e l’incoscienza della giovinezza, l’idea dell’avventura,
l’orgoglio della divisa, convinti, tra l’altro, che non ci sarebbe accaduto
nulla di male.
Se
chiudo gli occhi rivedo ancora in modo nitidissimo la mia famiglia schierata al
gran completo davanti a casa per darmi l’ultimo saluto. Col mio modesto
bagaglio, mi avviavo con gli altri “richiamati” verso la stazione di Pietrasanta.
A piedi, naturalmente.
Eccoli,
dunque, i miei cari radunati e stretti tra loro, con mamma che si mordeva le
labbra per non piangere, stringendo a sé il più piccino dei miei fratelli,
Ultimio, chiamato così perché babbo aveva deciso che sarebbe stato l’ultimo
della covata! E poi in fila Alida, Umberto, Jacopo, Giovanni, Maria e via via
tutti gli altri in scala.
Questa
immagine me la portai stampata nella mente per tutto il periodo che rimasi
lontano da loro; mi era di conforto nei momenti peggiori, nella solitudine, nel
disagio, nella stanchezza. E fu lunga quell’assenza, quattro anni.
Quando
infine fu dichiarato l’armistizio, l’esercito italiano era ormai allo stremo;
le truppe alleate americane stavano risalendo la penisola mentre i tedeschi
iniziavano la ritirata seminando sul loro cammino distruzione e morte. Rastrellamenti,
torture, deportazioni in carri bestiame blindati, con migliaia di persone
mandate a morire in modo atroce nei campi di sterminio.
Al
mio battaglione fu detto che eravamo liberi di tornare a casa; non esistevano
più né Capi né ordini da eseguire, né direttive. Ciascuno doveva arrangiarsi
come poteva. Non c’era più Patria da difendere…
Ebbe
così inizio anche per me l’epopea del rientro. Mi trovavo a centinaia di
chilometri di distanza dal mio paese; inutile contare sui mezzi di trasporto (scarsissimi)
e nemmeno sui treni. Le stazioni erano per buona parte distrutte dai
bombardamenti, i ponti fatti saltare con la dinamite, le strade pressoché
impraticabili e pericolose a causa delle colonne di camion carichi di soldati
tedeschi in fuga.
Procedevo
per lo più di notte inerpicandomi per sentieri nascosti, dormendo e mangiando
quando potevo, rifugiandomi in casolari abbandonati e fienili semidistrutti. Mi
capitò persino di rimpiattarmi in un camposanto: fu un contadino a informarmi
che i tedeschi erano nei paraggi e l’uomo mi suggerì quel luogo considerandolo
il più sicuro.,
Lo
disse ridendo “…vai lì, stai certo che nessuno ti rivolgerà la parola!”. Mi
regalò anche una forma di pane.
Dormivo
sfinito dal gran camminare e dalla fame, sostenuto però dalla visione di mia
madre e di tutti gli altri e mi pareva quasi di vederli pazzi di gioia nello
scorgermi.
Questo
pensiero mi dava la forza di proseguire; ero partito ragazzo, convinto di
andare a combattere per una giusta causa... Tornavo invece con la sola voglia
di scordare quegli anni devastanti e quel periodo di giovinezza che mi era
stato rubato.
E
avanti sempre col volto dei miei dinanzi agli occhi.
Fu
varcando il confine con la
Romagna che ebbi la ventura di imbattermi in alcuni camion
carichi di soldati americani: mi presero a bordo accogliendomi con grandi
sorrisi e pacche sulle spalle, offrendomi sigarette e tavolette di cioccolato (da
quanto tempo non ne assaggiavo ?) Non ero il solo italiano. ‘erano altri
profughi come me, fu perciò spontaneo cominciare a parlare fumando quelle
sigarette addirittura preziose. Finalmente un po’ di riposo e allegria, fra
quei ragazzoni grandi e grossi e ben nutriti, che certo contrastavano
fortemente con noi poveri reduci cenciosi e senza allori!
Ci
sentivamo stanchi nel corpo e nella mente, provando un terribile senso di
frustrazione.
Ci
sentivamo ingannati, umiliati, traditi.
Finalmente
rifocillato fui preso da una grande sonnolenza: me ne stavo rannicchiato in un
angolo quando sentii qualcuno battermi leggermente sulle spalle con sorpresa
riconobbi un mio compaesano un campanaro di val di Castello che conoscevo sin
da ragazzo. Ci abbracciammo commossi iniziando a narrarci le nostre
disavventure.
Le
parole si accavallavano con una specie di furia quasi a recuperare il tempo
perso, evocando persone e fatti ormai lontani… alle mie domande accennò a
quanto accaduto nelle nostre zone per opera dei nazisti. Mi accorsi che
trattenevo a stento le lacrime.
Li
ascoltavo attento, guardandolo fissamente con la sgradevole sensazione che
faticasse a dirmi tutto.
Insistevo
“ ma a Sant’Anna di Stazzema, come è andata? Lassù magari non ci saranno
arrivati, vero?
Restava
sul vago: purtroppo c’erano state delle fucilazioni, disastri, e anche a lui
erano morti due familiari…Parlava sottovoce, fissandomi a sua volta con in
fondo agli occhi una disperazione bruciante.
Mi
sentivo pervaso da una grande inquietudine, tormentato dall’ansia febbrile di
far presto, arrivare, vedere…
Intanto
la colonna militare avrebbe fatto sosta a Fivizzano, ma non volli fermarmi
nonostante l’invito che mi fu fatto; da lì avrei proseguito come meglio potevo
anche a piedi in mancanza d’altro. Mi fu donata anche una sacca con del cibo.
Un po’ alla volta raggiunsi Carrara e via via Massa Querceto in quest’ultima
località risiedeva anche una mia zia materna: da lei, ne ero certo, avrei avuto
notizie recenti.
Imboccai
perciò di buona lena il sentiero fuori mano che mi conduceva all’agognata meta:
Giunto infine nei pressi, fui colto da uno spaventoso senso di disorientamento,
non riuscendo a credere ai miei occhi. La casa non c’era più, nemmeno la
stalla, gli animali, l’orto, il granaio. Fra le erbacce oramai rigogliose
spuntavano solamente spezzoni di mura annerite, nient’altro.
Con
le gambe che mi tremavano, mi accasciai tra quelle rovine guardami stranito
attorno.
Non
riuscivo a credere a quello sfacelo, mi sentivo venir meno, le forze mi
abbandonavano. Stremato, mi allungai tra quegli sterpi, raggomitolandomi come
un cane randagio, candendo in una specie di torpore.
Forse
fu uno svenimento, non so, forse un dormiveglia; e stranamente (era un delirio…chissà)
mi pareva di risentire la mia vocetta di bambino che recitava una vecchia
poesia imparata a scuola “…sette paia di scarpe ho consumato, sette fiasche di
lacrime ho versato…” Ed era vero. Avevo camminato tanto e tanto, ed ora
piangevo a dirotto, piangevo su quanto represso troppo a lungo, su ciò che
forse mi attendeva, che oscuramente temevo.
Non
rammento per quanto tempo rimasi così. Quando infine mi riscossi, calava la
sera. Rialzandomi a fatica mi avviai alla volta di Pietra santa poi ecco Val di
Castello ecco la salita per sant’Anna.
Ma
non era più il percorso di gioia che ricordavo. Sparite le case, i piccoli
giardini, la brava gente che mi salutava quando passavo, regalandomi fiori e
mazzetti di erbe odorose per mia madre: gente buona. Laboriosa, semplice.
Non
si vedeva nessuno, non c’era nessuno.
Ovunque
un grande silenzio, nemmeno una voce lontana, un belato, un richiamo.
Ansimavo.
L’angoscia rendeva il percorso ancora più difficoltoso mi sembrava di non
arrivare mai. Mi reggevo in piedi a stento. Fu poco prima di entrare in paese
che scorsi di lontano una vecchia donna del posto che mi riconobbe. Mi diressi
verso di lei affannato, non riuscendo a pronunciare nemmeno una parola. La
poverina si accostò tentennando il capo con gli occhi colmi di lacrime. Mi
abbracciò stretto facendomi con la mano una lunga carezza sul viso come una
antica madre.
Tremava
incapace di parlarmi.
Allora
compresi.
D’improvviso
qualcosa scattò in me sciogliendomi da quell’abbraccio cominciai a correre
verso casa mia con le braccia tese in avanti urlando quei cari nomi chiamando
implorando che mi venissero incontro, supplicando. Gridavo e la mia voce
rimbalzava lontano, senza risposta.
Ma
dov’era la mia casa? Nulla anche lì più nulla solo quel tremendo silenzio
Fu
allora che sentii dentro il cervello come uno scoppio lacerante uno schianto, e
caddi lungo disteso dinanzi a quella soglia oramai cancellata.
Quando
mi risvegliai, giacevo in un letto d’ospedale. Mi ci vollero giorni prima che
riuscissi ad emergere dal buio pozzo di dolore in cui mi ero smarrito.
Riaprendo
gli occhi, intravidi accanto al mio letto la zia di Querceta: la poverina mi
aveva vegliato giorni e giorni in attesa che tornassi alla realtà.
In
seguito, con molta calma. Mi narrò che si era salvata per puro miracolo essendo
assente quando nella zona avvenne la strage. Poi con cautela cominciò a
descrivermi la tragedia di Sant’Anna.
12 agosto 1944
Stante
l’avanzata degli alleati, il maresciallo Kesserling (fedelissimo di Hitler)
aveva dato ordine di colpire senza pietà le popolazioni civili, specie quelle
residenti sui monti, convinto di bloccare l’azione dei partigiani.
Una
mossa disperata che lo spinse a far eseguire con inaudita ferocia lo sterminio
di persone inermi, perlopiù donne vecchi e bambini, visto che gli uomini validi
erano al fronte o alla macchia.
12 agosto…..non era ancora l’alba quando le SS
giunsero di soppiatto a Sant’Anna di Stazzema. In quel verdeggiante ombroso e
fresco la maggior parte degli abitanti dormiva ancora.
Furono
così sorprese nel sonno ben 560 persone, non ci fu possibilità di scampo per
nessuno.
Strattonati,
pungolati con le canne dei mitra percossi selvaggiamente presi a calci quei
poveri esseri vennero spinti verso il sagrato della piccola chiesa e qui
trucidati a colpi di mitra. L’opera di annientamento fu poi completata
bruciando i corpi con i lanciafiamme.
Il
primo a cadere fu il giovane parroco aveva offerto la sua vita purché fossero
risparmiati quegli innocenti, ma il massacro non prevedeva superstiti.
Della
mia famiglia ne furono uccisi dieci.
Di
quei cari volti mi è rimasta soltanto una piccola fotografia scattata proprio
il giorno della mia partenza e speditami poi al fronte.
La
riguardo sovente domandandomi come sia possibile non vederli più non udire la
fresca risata del piccolo Ultimio, le canzoncine cantate da Alida con la sua
bella vocetta, il richiamo paziente di mia madre.
Ora
a Sant’Anna (insignita di medaglia d’oro alla Resistenza) è stata costruita
lungo l’erta del monte una suggestiva via crucis; accanto ad ogni piastrella
con le stazioni della passione di cristo ce n’è un’altra raffigurante i vari
episodi di quell’eccidio.
Una
in particolare colpisce e commuove: mostra una giovane donna con un bimbo in
braccio che scaglia uno dei suoi zoccoli contro un tedesco. Non avendo altro
aveva cercato di difendersi così. Al termine della via crucis ci si trova
dinanzi al bellissimo monumento alla memoria.
Su
un bianco blocco rettangolare di lucido marmo giace distesa una giovane madre
che stringe al petto il suo figlioletto uniti oramai in un sonno eterno.
Lassù
rimane il mio cuore, spezzato per sempre.
Clementina
Sveva Moroni.
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