In preparazione delle celebrazioni del centenario della "grande guerra" la nostra sezione rende pubblico il proprio documento, e, ribadendo la posizione già espressa in Comune all'incontro con le Associazioni Combattentistiche e d'Arma, chiede che l'anniversario sia occasione di seria riflessione storica, e non luogo di vane celebrazioni di sapore retorico e dannunziano.
l'ANPI PAVIA
RICORDA, NON COMMEMORA
E
ricorda [modalità ingresso in guerra]
L’Italia non entrò in
guerra perché animata da un insopprimibile desiderio di combattere contro il
vecchio ordine reazionario europeo. Legata agli imperi centrali da un
trentennale trattato – rinnovato nel 1912 - l’Italia (Ministro Esteri Sonnino;
presidente del Consiglio Salandra) condusse ad insaputa del Parlamento
trattative segrete
sia con gli Imperi Centrali, barattando la propria neutralità con alcuni vantaggi territoriali, sia con le Forze dell’Intesa, analogamente barattando anche con esse la propria entrata in guerra con altri vantaggi territoriali ed economici.
sia con gli Imperi Centrali, barattando la propria neutralità con alcuni vantaggi territoriali, sia con le Forze dell’Intesa, analogamente barattando anche con esse la propria entrata in guerra con altri vantaggi territoriali ed economici.
Le trattative si
protrassero, in clima di segretezza, escludendo il Parlamento, fino a
concludersi con il Patto di Londra che, siglato il 26 aprile 1915, prevedeva
l’entrata in guerra del nostro Paese a fianco delle forze dell’ Intesa entro un
mese, a fronte della promessa di ottenere il Trentino il Tirolo meridionale
Trieste e la Dalmazia.
Gli stati maggiori
militari non avevano neppure lontanamente pensato alla possibilità di spezzare
della Triplice a favore di una alleanza bellica a fianco dell’Intesa. Anzi si
arrivò a consigliare, l’”unità operativa
delle truppe della Triplice facente capo ad un unico concetto direttivo”. (nota
del gen. Cadorna al capo dell’esecutivo luglio 1914)
Ricordiamo quindi il
vile opportunismo del gen. Cadorna, che, successivamente posto al Comando
Supremo, non aveva ritenuto né folle né incoerente dichiarare a)in data il 25
settembre 1914 l’impreparazione dell’esercito italiano ; b)proporre in data 31
luglio 1914 l’entrata in guerra accanto agli imperi centrali, e c)sostenere in
data il 3 agosto la necessità dell’immediato concentramento delle truppe
italiane in Veneto [trascurando le pesanti carenze della rete delle
infrastrutture ferroviarie] così da realizzare la mobilitazione immediata
contro l’Austria. (Fonte: Piero Pieri l’Italia nella prima guerra mondiale ).
Tutto questo la dice
lunga, pur in brevissima sintesi, sulla mentalità e sull’assoluta
impreparazione della classe dirigente italiana e dei supremi comandi militari.
Ben lungi dal
rappresentare un atto inteso alla conquista di maggiori libertà democratiche,
in una Europa radicalmente rinnovata, l’entrata in guerra dell’Italia
rappresentò piuttosto una sorta di colpo di stato parlamentare ( fonte Giuliano
Procacci storia degli italiani ), nella convinzione che una guerra breve e
vittoriosa [convinzione, questa, maturata a seguito della brusco arresto della
avanzata germanica sulla Marna] avrebbe facilitato “mediante l’instaurazione di una maggiore disciplina nel Paese una
involuzione in senso autoritario e novantottesco dello Stato [ Stato che
nei giorni dell’attentato di Sarajevo mandava 100.000 uomini delle forze
dell’ordine contro i non numerosissimi e non armati braccianti in sciopero
della Romagna] avrebbe dato respiro alle
forze della conservazione e dell’ordine
costituito, allontanando minacce sovversive” e stroncando anche la pur
cauta politica giolittiana della “mano tesa” verso il Partito socialista.
L’intervento fu
perciò anche un atto di politica interna, una sorta di piccolo colpo di Stato
appena rivestito di forme di legalità. I pieni poteri al governo furono infatti
votati da un Parlamento che, stretto tra le pressioni dell’Esecutivo e quelle
della piazza interventista, [ che facilmente avrebbe potuto essere dispersa
dalla polizia così come lo furono operai e contadini che analoghe
manifestazioni avevano inscenato contro la guerra] aveva oramai perduto larga parte delle
proprie prerogative e delle proprie libertà” ( Fonte Giuliano Procacci storia
degli Italiani). In proposito Giolitti
nelle sue memorie avrebbe scritto “ i
poteri governativi avevano di fatto soppressa l’azione del Parlamento in un modo che non aveva riscontro negli
altri Stati …”
E
ricorda [ chi festeggia e chi muore]
I deliranti miraggi
interventisti delle “radiose giornate di maggio” e i clamori della retorica
dannunziana si sarebbero ben presto dileguati con il ritorno dei primi treni
ospedali e lo svanimento del mito di una guerra lampo. L’Italia entrava in guerra psicologicamente e
militarmente impreparata, già dissanguata dall’esborso finanziario per la
guerra di aggressione alla Libia del 1912.
I soldati
scaraventati nelle trincee - il fetido e mortifero luogo dove si consumò la
prima grande esperienza collettiva e di massa dell’Italia unita da soli 50 anni
- combatterono bene e con coraggio,
compresi
quei giovani socialisti, il cui Partito, almeno in alcune sue componenti, aveva
vanamente condannato la guerra come lotta tra governi capitalisti e
imperialisti, tutti ugualmente responsabili del conflitto e che vanamente aveva
intuito che il conflitto non avrebbe risolto nessun problema e non avrebbe
portato al proletariato che lutti e rovine,
compresi
i fanti contadini che su un totale 5
milioni e 750 mila combattenti erano una forza pari a 2 milioni e 500.000,
quasi tutti concentrati nei reparti di fanteria, corpo destinato a subire da
solo il 95 per cento delle perdite, [tanto che a guerra finita gli orfani di
padri caduti al fronte erano al 63% figli di contadini (Fonte Serpieri la
guerra e le classi rurali)]. Al di là della vacua retorica sul patriottismo si
può dire quindi dire che la classe più lontana dalla “città” e più estranea
alla vita politica e civile, le cui bandiere e i cui rappresentanti sicuramente
non si mescolarono alle gioiose manifestazioni interventiste di studenti e
borghesi, la classe più contraria,
dunque, alla guerra pagò il maggiore tributo di sangue. I fanti contadini
combatterono e morirono con la stessa rassegnata [essendo “la rassegnazione”, stante le dichiarazioni
dell’insospettabile Padre Agostino Gemelli il sentimento prevalentemente
diffuso nelle truppe] e coraggiosa
abnegazione con cui il mondo rurale affrontava in tempo di pace alluvioni e
tempeste.
compresi
i credenti di fede cattolica, alle cui orecchie, nel fango e tra i topi delle
trincee, forse non giunsero nemmeno alle orecchie le parole del Papa Benedetto
XV che il primo agosto 1917 pronunciò queste parole “Siamo animati dalla cara e soave speranza… di giungere quanto prima alla
cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno di più apparisce
inutile strage.”
I soldati del giovane
Stato italiano si serrarono nelle trincee, scalarono le montagne, cercarono
calore accanto ai muli, combatterono e si scagliarono all’assalto, conoscendo
anche gesti di eroico furore
malgrado
il vitto del soldato italiano, inizialmente composto da 750 grammi di pane, 200
di pasta, 375 di carne , ulteriormente depauperati e razziati dalle ruberie nelle retrovie, fosse stato
ridotto alla fine del 1916 a
600 grammi
di pane, a 250 grammi
di pasta e ad una diminuzione della carne sostituita due volte la settimana con
il baccalà, con il conseguente depauperamento calorico da 4000 a 3000 calorie, contro
le 3400 dei soldati francesi e le 4000 delle truppe britanniche. ( Fonte Piero
Melograni Storia politica della grande guerra)
malgrado
il fatto che il trattamento economico fosse di
molto inferiore a quello delle truppe americane
malgrado il fatto che
i primi elmetti arrivarono in linea solo tra la fine del 1915 e la primavera
del 1916, tanto che i fanti andavano all’assalto con il kepì di panno, i
bersaglieri con il cappello privato delle piume e gli alpini con il cappello
senza la penna nera per non attirare il fuoco nemico ( Fonte De Bono
nell’esercito nostro ).
malgrado
il fatto che nel novembre 1915 sul Carso il vestiario invernale non fosse
ancora arrivato (cit. Rocca vicende di una guerra)
In un Paese pervaso
di retorica risorgimentale e di dannunziani orpelli, i soldati italiani erano i
peggio trattati; quelli, con maggiore accanimento, “pensati” nell’immaginario
degli Stati Maggiori come “carne da macello”, e vessati dalla follia retorica
degli Stati Maggiori stessi, di cui riportiamo solo tre esempi :
a)Cadorna ebbe a
sostenere che il soldato italiano era migliore nell’offensiva che nella
difensiva perché “nell’offensiva si
ubriacava e si stordiva” (cit. Malagodi conversazioni sulla guerra),
b) la circolare del
comando supremo del 24 agosto 1915 consigliava a fronte del rischio di
congelamento in quota di allentare la pressione delle bende che fasciano i
piedi e di “togliersi spesso le scarpe,
ungendosi il viso e le mani con il sego”, pur essendo anche le candele
un genere di raro lusso nel buio delle
trincee.
c) l’articolo 433 del
Regolamento Militare (la famosa “libretta rossa”), mandata a memoria dalle
reclute, prescriveva inoltre quanto segue: “soldato
deve desiderare ardentemente l’assalto alla baionetta come mezzo supremo per
imporre la propria volontà al nemico e raggiungere la vittoria, privilegiando
sempre e comunque l’assalto frontale per conquistare il lauro della vittoria”,
sadicamente indifferente al fatto che la guerra aveva cambiato i propri stessi
connotati, e l’esercito austriaco con maggiore lucidità e sensatezza strategica
andasse privilegiando la difesa flessibile e il radicale impiego dell’artiglieria.
Mentre al fronte si
combatteva e si moriva, infradiciati nelle mantelline di lana, essendo anche
gli impermeabili esclusi dal vestiario della truppa, e lo Stato diventava più
autoritario - le ragioni dell’esecutivo progressivamente prevalendo su quelle
del potere legislativo - tutti i principali settori dell’industria lavorarono a
pieno ritmo, producendo enormi profitti e spettacolari aumenti di capitale,
progressivamente concentrati nel comparto siderurgico (es. Fiat).
La guerra contribuì
fortemente a definire i tratti tipici del capitalismo italiano: alto grado di
concentrazione familistico-territoriale, compenetrazione tra Stato e Banche,
dipendenza delle ordinazioni dallo Stato, rafforzamento dei grandi trust (Ilva
o Ansaldo) similari ad autentiche baronie con cui il potere pubblico si trova a
dover mercanteggiare.
E
ricorda [italiani contro italiani-decimazioni e fucilazioni]
Già durante
l’offensiva del Trentino nel maggio 1916 e i primi sfondamenti delle linee
italiane sull’altopiano di Asiago il Comando supremo per il tramite di Cadorna
- 21 maggio 1916 – espressamente sostenne l’utilità e la necessità di dare una
lezione di virilità, “fucilando senza
processo” “chi non resista e non muoia sul posto”.
La storica e
consolidata attitudine antipopolare delle gerarchie militari, costantemente
preoccupate del pericolo del contagio sovversivo, si accentua negli anni della
grandi guerra. (fonte Irene Guerrini e Marco Pluviano – La giustizia militare
nella grande guerra in Annali della Fondazione Ugo La Malfa, 2013).
Così, le esecuzioni
ebbero immediatamente inizio a partire dal 28 maggio 1916, con un primo
episodio di decimazione che passa per le armi tre sergenti e otto uomini di
truppa del 141° reggimento fanteria.
Anche per quanto
riguarda la giustizia militare, essa si irrigidisce ulteriormente a seguito
dalla circolare del Comando Supremo, la quale precisa che le condanne al
carcere per reati commessi al fronte ( per le quali non è comunque previsto
l’istituto della grazia regia ) sarebbe dovuta avvenire all’indomani della fine
della guerra, per evitare che i combattenti trovassero rifugio dagli orrori del
conflitto nelle patrie galere. La sospensione della pena è quindi solo
funzionale al pieno recupero della carne da cannone.
La politica della
repressione continua per il tramite del gen. Cadorna che ribadisce l’ordine di
fucilare sul posto soldati o ufficiali, evitando di riversare la responsabilità
dei provvedimenti repressivi sui tribunali, a suo avviso, troppo restii a
pronunciare condanne a morte. I comandanti devono essere messi nelle condizioni
di reprimere fulmineamente l’indisciplina delle truppe, evitando vincoli
procedurali, anche perché i tribunali erano preda “dello stesso morboso sentimentalismo” del Paese e raramente
pronunciavano sentenze capitali.
Il Comando Supremo
autorizza i comandi inferiori a decretare le decimazioni anche senza il parere
del Comando Supremo.
A titolo
esemplificativo basti ricordare il caso della Brigata Salerno 89° Reggimento i
cui soldati, non soltanto furono decimati, ma vennero bombardati da artiglierie
e mitraglie italiane, mentre si trovavano nella terra di nessuno tra le linee.
P. 214 e successive (Piero Melograni Storia della grande guerra vol. 1).
Richiamato questo
contesto repressivo e feroce, in occasione della ricorrenza del IV novembre non
si taccia nemmeno circa il proliferare delle forme di autolesionismo né circa
l’episodio noto sotto il nome di tregua di Natale ( anno 1915) che coinvolse in
un vano tentativo di fraternizzazione tra fanti di opposti eserciti vari
settori del fronte.
Nel 1917, quando tra
i reparti stremati si diffuse una forte crisi disciplinare e si moltiplicarono
gli episodi di rivolta e di rifiuto collettivo, mentre cresceva la suggestione
del crollo dell’impero zarista e della richiesta di una pace “giusta e
democratica” immediatamente avanzata nei giorni della rivoluzione dell’ottobre
leninista, si assistette ad una accelerazione dell’attività dei Tribunali
militari : 82.366 condanne dal maggio 1917 al maggio 1918, contro le 48.296 dei
dodici mesi precedenti e le 23.016 dei primi dodici mesi di guerra.
Aumentò anche il
numero dei reati di indisciplina, insubordinazione e diserzione, e si
moltiplicarono reati collettivi, anche da parte di soldati sui treni in
partenza per i fronti che associarono agli spari, al lancio di pietre, a
insulti verso borghesi e imboscati anche le urla pacifiste. Un caso emblematico
di ammutinamento rispondente ad un piano preordinato, con combattimenti tra
ribelli e lealisti e uccisioni di ufficiali e carabinieri, è quello della
Brigata Catanzaro a Santa Maria La Longa tra il 15 e il 16 luglio 1917 ( 141 e
142 fanteria). L’ammutinamento, domato con il classico ricorso alle
decimazioni, lascia una striscia di livore, di sordo rancore e ostile
sottomissione, come ebbe a notare il Duca di Aosta Comandante della Terza
Armata.
I tribunali militari
pronunciarono durante la guerra 101.665 condanne per diserzione, dichiararono
altri 26.826 militari esenti da pena per essere spontaneamente rientrati nelle
fila dell’esercito, rappresentando così un totale di 128.527 casi di
diserzione.
E, concludiamo,
citando la circolare n. 3525 del 28 settembre 1915 nella quale Cardona ebbe a
scrivere “il superiore ha il sacro dovere
di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Chiunque
tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere sarà raggiunto dalla
giustizia sommaria del piombo dei carabinieri incaricati di vigilare alle
spalle delle truppe.”
E
ricorda infine [ il dopo guerra ]
La guerra vittoriosa
non aveva risolto nessun problema di quelli antichi che affliggevano la nostra
nazione: un apparato produttivo concentrato e squilibrato, una macchina dello
Stato improvvisata, a compartimenti stagni largamente infeudata dagli interessi
dei più grandi gruppi economici, un personale dirigente tenuto insieme da una
comune vocazione autoritaria, una opinione pubblica formatasi sotto il segno
della guerra e della esasperazione.
Nell’aprile del 1919
Il Presidente del Consiglio Ministri Orlando e il ministro degli esteri Sonnino
abbandonarono la conferenza di Parigi per protesta contro la scarsa
considerazione degli interessi italiani da parte degli alleati dell’intesa.
Nasce così il mito
della vittoria mutilata, e con essa il fascismo.
CONCLUSIONE :
ad
avviso del Direttivo ANPI delle sezioni Onorina Pesce e Borgo Ticino il
centenario della Prima Guerra Mondiale deve essere l’occasione per fare i conti
con questo capitolo doloroso e rimosso dalla memoria nazionale, compreso quello
relativo ai soldati italiani fucilati e comunque uccisi dal piombo di altri
soldati italiani perché ritenuti colpevoli di codardia, diserzione o
disobbedienza, evitando ogni orpello di dannunziana memoria.
Va sfatato “l’inconscio accordo” di intere
generazioni di italiani che, festeggiando negli anni, la vittoria di Vittorio
Veneto, hanno nascosto la cattiva coscienza degli Alti Comandi e di una classe
politica dirigente, e coltivato il mito della grande guerra quale punto di
unione della nostra Nazione, annullando la memoria di una truppa “trascinata per la gola e troppo spesso
portata avanti fino alla morte dagli spettri
della polizia militare e dei plotoni di esecuzione”. ( Fonte
Forcella Monticone Plotone di esecuzione – i processi nella prima guerra
mondiale ed Laterza)
Qualsivoglia
iniziativa attorno al IV novembre – quale “festa della vittoria” non può
prescindere da una contestualizzazione degli avvenimenti sui fronti della
grande guerra, che, alla sua conclusione, contò 600.000 morti.
Evitando ogni
retorico appello all’italianità e alla vittoria, e richiamandosi piuttosto
all’articolo 11 della Costituzione Repubblicana, sarebbe utile fare di questa
luttuosa ricorrenza una buona occasione per approfondire quanto raramente detto
sulla grande guerra secondo la linea succintamente abbozzata in questo
documento che altro non è se non un tentativo di ricostruire alcune verità.
Apprezziamo il fatto
che, riprendendo un appello firmato da storici e intellettuali quali Alberto
Monticone, Luciano Canfora, Giulio Giorello, Paolo Rumiz, Lidia Menapace, la Camera dei deputati, a quanto siamo
riusciti a capire dalle informazioni presenti in rete, abbia dato il proprio
assenso ad una legge che prevede la riabilitazione d’ufficio di fucilati per reati di
diserzione e per i reati in servizio, come lo sbandamento, e i fatti di
disobbedienza. La legge prevede anche la affissione in un'ala del Vittoriano in
Roma una targa nella quale la Repubblica renda evidente la propria volontà di
chiedere il perdono di questi caduti.
Al di là dell’apprezzamento per
questo provvedimento, diciamo anche che la nostra aspirazione è quella di
vivere in un Paese in cui non si commettano colpe e non si producano
responsabilità tanto gravi, per le quali cento anni dopo sia necessario
chiedere scusa, interrogandoci sul diritto e sulla effettività legittimità che
noi, vivi, abbiamo di perdonare in nome e per conto dei morti.
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