Pubblichiamo il saluto del Direttivo ANPI Sezione Onorina Pesce, portato da Annalisa Alessio, all'iniziativa "La Resistenza a Pavia Ovest" sabato 2 aprile presso l'APS Cazzamali, organizzata da Cia/Associazione Pensionati in Cammino, con il patrocinio del Comune di Pavia.
Grazie per avere coinvolto le sezioni
dell’ANPI di Pavia in questa iniziativa. Quello che ci ha invogliato a
partecipare è il comune desiderio di ri-visitare luoghi vicini e familiari per
ritrovare in essi la traccia di storie forse trascurate e tornare a dar loro
voce.
Questa ri-scoperta forse ci porterà a
comprendere che il reticolo sotterraneo di queste storie è la radice della
nostra Repubblica e lo snodo dei valori di libertà e giustizia di cui abbiamo
più che mai bisogno per costruire un futuro degno e civile per questo nostro
Paese, oggi tanto povero di memoria e di etica civile, abitato da un dilagante
trasformismo politico, e spesso da una cinica trascuratezza e indifferenza
verso l’interesse comune.
Per arrivare abbiamo percorso una
strada che, sola, basterebbe a darci conto di quanto grande sia il debito della
nostra Repubblica verso i combattenti partigiani.
La strada porta il nome di sette contadini antifascisti da
subito in prima linea.
Il 25 luglio
‘43 tutta la loro famiglia, tre generazioni, è sull’aia a
festeggiare la caduta del fascismo e l’8 settembre apre le porte della propria
cascina ai primi soldati di diverse nazionalità sfuggiti alla prigionia
tedesca. Molti anni dopo, nel libro che racconta la cattura e la fucilazione
dei suoi figli il padre Alcide Cervi avrebbe scritto come, nei primi
giorni della lotta, ex prigionieri e giovani ribelli della zona avessero
fraternizzato cantando insieme nelle diverse lingue una stessa canzone :
l’internazionale. ( cit. Alcide Cervi I miei sette figli), a testimonianza di
come il movimento resistenziale fosse legato al valore universale della
liberazione dell’uomo.
Una cascina, dunque, al principio della Resistenza, non diversa dalle cascine
della campagna di Pavia Ovest.
Anche qui
sono gli occhi e i fucili dei padri e dei nonni a vigilare sul raccolto e sul
sonno dei nipotini. Immaginiamoli allora questi vecchi contadini svegli nel
buio. Pensano ai figli soldati? Alla terra che ha poche braccia? Alla guerra?
Al rischio delle razzie e delle scorribande tedesche? O pensano all’altra
guerra, quella patita nelle trincee da cui per miracolo sono tornati vivi più affamati e
immiseriti di prima? O pensano al tempo in cui la rivoluzione leninista del
1917 pareva loro vicina e possibile? O pensano alla forza e al coraggio che
traevano dalla appartenza alla lega di loro contadini, protagonisti della
ribellione contro l’onnipotenza padronale che tra il 1919 e il 1920 attraversa
come un fuoco il loro mondo? O ricordano quando questo sogno viene ammazzato
dagli squadristi fascisti finanziati dagli agrari? O pensano che il tempo della
resa dei conti è vicino?
Perché
appena oltre le cascine e i campi coltivati, si estende la fitta boscaglia che
a breve diventa nascondiglio dei renitenti alla leva del Duce per l’arruolamento
nella sciagurata repubblica di Salò, e dei soldati in rotta, reduci dai fronti
di una guerra voluta dall’Italia fascista in qualità di alleato subalterno al
grande Reich, sfuggiti dalle caserme diventate dopo l’otto settembre una
trappola mortale esposte alle rappresaglie e alle deportazioni dell’esercito
occupante, ragazzi che ora vanno cercando armi, organizzazione, parole d’ordine
che dia valore al loro desiderio di riscatto.
In questa campagna c’è un cuore e
questo cuore batte al Cravino.
Qui finalmente riesce a fare ritorno Giuseppe
Abbati, reduce dalla Croazia, sbarcato ad Ancora, imprigionato dai tedeschi a
Fano e da qui evaso. Il Cravino è la sua casa; è dove abita la sua famiglia,
originaria di Zeccone.
E’ la Resistenza che comincia sulla
porta di casa che coinvolge i familiari che lo aiutano, gli amici che entrano
nelle fila della nascente Brigata 168°, i vicini di casa che non lo tradiscono
e che, forse, sanno che quando sparisce è per incontrarsi in via Brambilla con i responsabili dei
partiti antifascisti, quelli superstiti dopo gli arresti del gennaio ’44 che
hanno spezzato le ossa al CLN pavese di Magenes e di Belli – entrambi deportati,
o con i responsabili delle cellule clandestine della Necchi, della Snia,
dell’Arsenale dove i sabotaggi colpiscono l’ingranaggio bellico nazifascista e
gli scioperi del marzo ‘43 segnano una graduale riscoperta dell’identità della
classe operaia, che interpreta un ruolo egemone nella Resistenza di tutto il
Paese.
L’ANPI è l’organizzazione che lavora
per mantenere vivi i ricordi partigiani e vuole traghettare da un secolo
all’altro, dall’una all’altra generazione, le parole incandescenti della
libertà e della giustizia sociale, i valori grandi e popolari, tutt’ora
attuali, alla base del movimento partigiano.
La Resistenza non è solo quella
combattuta in montagna, che ha come scenario privilegiato le Alpi piemontesi o
le colline dell’Oltrepo.
Non è solo quella intrisa di sangue,
segnata da fucilazioni sommarie e da atroci torture dei partigiani dei Gruppi
di Azione Patriottica nelle realtà urbane come Roma, Torino o Milano, dove
uomini come Dante Di Nanni, Ateo Garemi, Giovanni Pesce, già combattente volontario
nella guerra di Spagna e ragazze giovanissime come Onorina Pesce - da cui
prende nome la nostra sezione - o Carla Capponi, con le loro biciclette
sgangherate e i loro rudimentali esplosivi, sfidano per primi gli occupanti
nazisti e le camice nere repubblichine.
Il movimento resistenziale, nelle
nostre campagne, è piuttosto una rete diffusa, un intrecciarsi di voci, un
riprendere in mano la propria esistenza per pronunciare il no degli uomini
liberi e giusti, un ramificarsi di sguardi d’intesa tra contadini non-domati da
vent’anni di dittatura, di donne e di uomini legati da generazioni alla fatica
della terra, per i quali, in maniera istintiva, il fascismo coincide con la
parola padrone e per cui l’antifascismo e la Resistenza sognata, immaginata,
cercata, o combattuta, coincide con il principio primo della libertà autentica
: l’emancipazione dal bisogno e la liberazione dallo sfruttamento.
La Resistenza in questa campagna è un
passarsi di mano un biglietto, un giornale, un volantino clandestino che arriva
dal centro clandestino dell’Istituto Universitario di Piazza Botta e arriverà
fino a Milano grazie all’eroismo del bidello Luigi Borgarelli che chiude in
tasca una capsula di veleno, per non tradire in caso di cattura; è un ragazzo
che dà gas ad un camioncino che porta verso l’Oltrepo partigiano un fusto di
benzina trafugato all’Arsenale dove la prima cellula resistente coincide con il
nome di Ettore Barani, o un bambino che, sulla schiena, nascosta alla cinta dei
pantaloni ha una pistola da consegnare ad Abbati: questo bambino si chiama
Luigi Pietra, e lo troveremo più avanti.
Il movimento resistenziale per la
vecchia guardia antifascista, come il comunista pavese Antonio Fortuna già
combattente per la guerra di Spagna e nei maquis francesi, commissario politico
della Brigata 168°, è un guardarsi d’attorno cercando i giovani con cui
riannodare il filo della lotta; e per i giovani, cresciuti nelle elementari del
regime, balilla a otto anni, addestrati a credere, obbedire e combattere, è la
conquista di una identità civile radicalmente contrapposta alla vergogna dei
tenenti e dei generali che, strappandosi via le stellette del Regio Esercito,
consegnavano inermi le città al nemico nazifascista, è un prendere il sentiero
del riscatto che disegna all’orizzonte un futuro migliore.
Nella nostra storia troviamo anche una
banda di ragazzini scapestrati. Hanno dieci, undici, dodici anni, abitano tra
via Frank e piazza Vittoria, hanno ascoltato parole più grandi di loro dai
padri e dai nonni, nelle osterie e qualcuno anche negli oratori, come quello di
via Parodi, qualcuno è un garzone, qualcuno è un apprendista.
La campagna attorno alla Caserma Rossani in via Riviera, dove la
città cede il passo alla boscaglia, è il luogo in cui d’improvviso diventano
grandi e compiono un gesto che, per qualcuno di loro, rappresenta una scelta
che impegnerà la vita intera. Nella boscaglia attorno alla Rossani, ridotta a
muri vuoti e abbandonati dell’otto settembre, ci sono armi, pezzi di armi,
pistole, munizioni, ed ecco questi ragazzini farne incetta, buttarle in
cartella, in un sacco, nasconderle sotto la giacchettina e portarle in città ad
un vecchio operaio di Porta Calcinara che si occuperà del loro trasporto alle
formazioni dell’Oltrepò. Tra i ragazzini c’è un ragazzino che si chiama Umberto
Respizzi, che molti anni dopo, ci racconterà questa avventura che ha già il
sapore di una embrionale presa di coscienza.
Immaginiamo di camminare oltre via
Riviera, oltre la caserma Rossani per arrivare fino al Chiozzo.
Qui troveremo un ragazzo poco più che
ventenne, sorpreso dalla rotta sul fronte dei Balcani. Quando torna verso la
sua campagna ( è nato nel 1921
a Marcignago) è deciso a combattere i fascisti e i
nazisti, di cui ha misurato tutta la ferocia. Se non ha ancora un contatto, ha già
in testa il nome che prenderà da partigiano. Si chiamerà Ivan, un nome che ci
lascia immaginare la suggestione che esercita su di lui la Russia bolscevica, e
il contatto lo troverà presto con Attilio Corona, Antonio Fortuna, Giuseppe
Abbati, Luigi Fragnani, Antonio Astolfi e Emilio Cambieri, insieme ai quali
andrà costituendo il primo nucleo delle primissime cellule combattenti di cui
troviamo traccia in zona Chiozzo, in
zona Cravino, a Torre d’Isola fino a Borgarello, Samperone, Vellezzo
Bellini, Marcignago, Bereguardo, Cascine Calderari di Certosa.
Ivan sarà una dei comandanti di questa
rete fragile che man mano diventa la Brigata Garibaldina SAP 168° dedicata alla
memoria di Costantino Muzio, fucilato al Bivio Vela nell’estate feroce del ’44,
e abbandonerà la sua zona, il nord ovest di Pavia, solo dopo il rastrellamento
tedesco del novembre ’44 a Cascine Calderari – autentico arsenale della 168° -
per passare il Po e ad unirsi ai partigiani delle colline.
Ivan è Ugo Zuccotti e la sua storia ci
è stata raccontata dal figlio Celestino.
Facciamo un salto nello spazio e nel
tempo.
E’ la fine di aprile 1945.
Pavia dorme una delle prime notti di
libertà.
Al Ponte di Pietra c’è una famiglia che non si dà pace. C’è un
ragazzino di undici anni, Luigi, detto Gino, - quello che venti mesi prima
arrivato al Cravino consegnava ad Abbati la pistola affidatagli dal fratello
grande, che si rigira nel letto perché non vuole credere che questo suo
fratello grande, Carlino, sia davvero morto, impiccato ad un trave, mitragliato
ad un fosso, torturato in una delle tante Ville Tristi d’Italia. Luigi è il
primo a sentire un trapestio alla porta, è il primo a sentire un fischio, un
passo, è il primo a travolgere nell’abbraccio Carlo Pietra il partigiano
Scampolo, che torna alla sua casa di via
Aselli.
Ha gli occhi stravolti, fatica a
parlare, è ferito al petto al torace, ma è vivo, è tornato a casa, scampato al
lager di Bolzano, combattente nel Bresciano con le Brigate Matteotti e con la
168° in prossimità di Pavia.
Tra i giovani operai pavesi che hanno
preso coscienza duranti gli scioperi, che segnano il punto più alto della
Resistenza civile di massa, alla guerra e alle dittature, c’è un ragazzo di 19
anni, ha visto le mitragliatrici tedesche piazzate contro i lavoratori nel
cortile della Snia, ha visto otto compagni di lavoro portati via dai nazi
fascisti in rappresaglia allo sciopero, ha ascoltato Radio Londra nella cucina
di una casa di piazzale San Giuseppe di fronte alla Necchi con alcuni compagni
più anziani, ha scavalcato le mura del Castello diventato luogo di
concentrazione dei giovani di leva e in fuga nelle campagna ha trovato un
nascondiglio a casa della sorella a Cascina
Chiozzino; con i partigiani della 168° cercherà le armi, svolgerà azioni di
sabotaggio, tra cui quella contro il motoscafo ancorato all’altezza della Sora
che i tedeschi usano per pattugliare le sponde del Ticino, diffonderà volantini
ribelli al Politeama in una breve puntata dalla periferia alla città, rischierà
la vita, con orrore assistendo a brevissima distanza in località Pelizza alla
morte del giovane Giovanni Cazzamali, falciato dalla mitraglia nazifascista, e
sarà gravemente ferito ad un occhio negli ultimi scontri che preludono la
liberazione di Pavia.
Si chiama Marino Fronti e mandandogli il nostro abbraccio mostriamo le immagini della sua prima tessera dell'ANPI a firma di Ugo Zuccotti.
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