mercoledì 27 aprile 2016

LA PATRIA E' IL MONDO: PAROLE PARTIGIANE NELLA REALTA' DI OGGI

FESTA DELLA LIBERAZIONE
Pubblichiamo il testo di saluto portato da Annalisa Alessio ( Direttivo sezione Onorina Pesce) a nome di ANPI alla festa della Liberazione a Redavalle/ Santa Giuletta.
CON GRAZIELLA CERUTTI e MARIO CHESSA ANPI TERRITORIALE
Al centro la riflessione sulle nuove forme di odio razziale e la difesa attiva della Costituzione.


"C’ è un libro speciale - una vecchia edizione Einaudi - nella mia libreria. Mio padre lo toglieva dallo scaffale, e sfogliandolo cercava il passaggio da leggermi per le sere di allora, con la nebbia di fuori, l’ ordigno esploso in quel dicembre alla Banca dell’Agricoltura, e noi che, non avendo la televisione, ascoltavamo le notizie dalla radio, mentre nelle strade di Milano già mille cortei di democratici e di lavoratori denunciavano la matrice fascista dell’attentato di piazza Fontana.


Questo libro contiene le lettere scritte nelle ultime ore di vita da partigiani e da antifascisti condannati a morte. Tra le tante lettere vorrei proporvi quella scritta del commissario politico prima zona di Roma, Pietro Benedetti classe 1902. Benedetti era un uomo che viveva del proprio salario di ebanista in via Properzio n. 19. Chieti. Figlio di proletari e proletario lui stesso, si era schierato subito contro il fascismo, decifrando in esso la reazione estrema, brutale e spietata del padronato che arma e finanzia le squadre nere per scatenarle militarmente contro le classi lavoratrici che in quegli anni, a forza di scioperi e lotte, andavano organizzandosi e conquistando i loro primi diritti – un salario decente e un orario un poco meno massacrante.
Benedetti vede dare alle fiamme le sedi dei partiti dei lavoratori e gli assalti squadristi alle tipografie dei giornali “sovversivi”, vede bastonare i suoi compagni lavoratori in sciopero, vede condannare all’umiliazione dell’olio di ricino i braccianti e i capi lega, vede le camice nere spezzare le ossa alle organizzazioni dei lavoratori, piange, forse, quando sa dell’assassinio ( anno 1921) del sindacalista ferroviere Spartaco Lavagnini a Firenze e dell’assassinio a Roma ( anno 1924 ) del coraggioso deputato socialista Giacomo Matteotti.

E capisce che è solo l’inizio. Che presto il fascismo sarebbe dilagato, cavalcando la parola d’ordine della “vittoria mutilata”, fino a stroncare la fragile democrazia giolittiana, torcendo la parola “patria” fino a farne il proprio vessillo, ammantato di nero, escludente chiunque non chinasse la testa e la schiena davanti al dogma dell’infallibilità del Duce.

E’ comunista, Pietro Benedetti, ma per i massacratori fascisti che lo fucilano il 29 aprile ’44 sugli spalti di Forte Bravetta a Roma, poteva indifferentemente essere socialista o azionista, mazziniano o anarchico, cattolico o non credente.

Per gli italiani in camicia nera tutti i partigiani e tutti gli antifascisti di ogni credo politico o fede religiosa sono ugualmente traditori da passare per le armi.

“Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita. Amate la madrepatria ma ricordate che la patria vera è il mondo e ovunque vi sono vostri simili quelli sono vostri fratelli…”: con queste parole Pietro Benedetti si congeda per sempre dai suoi figli e questo addio acquista una stringente attualità perché rappresenta ancora oggi il “punto di vista” di ogni antifascista davanti alla propria coscienza e davanti al mondo. Le parole del partigiano che sta per morire scardinano ogni tentativo di trasformare la questione delle migrazioni dei popoli in questione di polizia – da affrontare con fili spinati manganelli idranti cani poliziotti e nuovi muri –; smontano le vergognose pulsioni xenofobe e razziste che legittimano i respingimenti e avvallano, nell’immaginario di tanti, la tesi del migrante come nemico, pericoloso straniero, potenziale terrorista, inquietante estraneo, diverso per religione e per colore della pelle, portatore di rischi sanitari e di ordine pubblico, fino a trasformarlo in soggetto responsabile dei mille mali e delle mille persistenti ingiustizie del nostro Paese.
Noi – antifascisti di oggi, cittadini che, serenamente torniamo a casa ogni sera “trovando cibo caldo e visi amici” ( parafrasando Primo Levi ) dobbiamo essere in prima linea per riaffermare i valori di un nuovo umanesimo solidale animati dalla consapevolezza che la costruzione del migrante come nemico della civiltà europea è una fandonia costruita ad arte, una finzione funzionale ad un grande disegno di distrazione di massa, che nega le responsabilità vere delle diseguaglianze e delle guerre, che risiedono nell’accaparramento delle ultime risorse energetiche e nell’insaziabile voluttà di profitto del capitalismo finanziario per il quale donne e uomini, popoli e Paesi altro non sono che trascurabile merce da triturare nel grande mercato che globalizza la crescente miseria e moltiplica le paurose diseguaglianze.

Attorno ad una parola infame e priva di ogni fondamento scientifico -che è la parola “razza”- in tutta l’Europa cresce l’ odio xenofobo che portò i comuni cittadini tedeschi a farsi complici della strategia eliminazionista del Reich che mandò a morte i sub umani esclusi del magico cerchio della razza perfetta e attorno alla parola “sicurezza”, forzata ad arte, si coagulano sigle para fasciste come Casa Pound che, levando il braccio nel saluto romano e allineando le proprie camice nere alle camice verdi, sognano il giorno in cui potranno marchiare la carne martoriata dei richiedenti asilo con la parola nemico e, nel proprio armamentario ideologico, rispolverano le mitologie dell’italianità trionfatrice, che ahimè ricordiamo bene perché applicata da comuni soldati italiani nell’ Etiopia bombardata con i gas o nei Balcani cinti dal filo spinato dei lager italiani – Paesi, questi, che, nel dopoguerra, vanamente richiesero al nostro Paese l’estradizione dei criminali di guerra italiani. Se la nuova frontiera dell’ANPI, come ha ribadito il nostro Congresso, sta nella battaglia contro ogni forma di razzismo xenofobo, il nostro primo dovere statutario resta quello di trasmettere la memoria di quella stagione in cui uomini e donne presero le armi per combattere o ripresero voce e parola per pronunciare il NO inflessibile di ogni essere umano libero e giusto di fronte alla vergogna e alla barbarie.
Noi chiamiamo i venti mesi con un nome bellissimo: “Resistenza”.

Ma dobbiamo anche sapere che quella italiana, a differenza della resistenza polacca, francese, belga, russa, non è stata solo una “resistenza contro l’esercito tedesco occupante”, ma un attacco, una iniziativa, una azione di riscatto di sé, una anabasi civile, una lotta per la liberazione dalla dittatura, nata nel nostro Paese, e in esso cresciuta come una mala pianta.

L’azione dei partigiani, dei gappisti, dei sabotatori, degli operai in sciopero, delle donne all’assalto dei forni di Roma o Torino, delle staffette come la nostra Luigina Albergati, non fu soltanto una conseguenza della brutalità dell’occupazione tedesca ma fu lotta di popolo contro il fascismo che, dopo il massacro delle organizzazioni dei lavoratori, si insediò al cuore dello Stato, si fece Stato impiegando come proprie armi la sordida complicità di casa savoia e l’indifferenza generalizzata – il grande male sociale, di cui limpidamente scrive Antonio Gramsci nelle sue lettere dal carcere.

Il popolo italiano, trovatosi all’otto settembre senza Stato, mentre i generali del Regio Esercito come Adami Rossi a Torino si strappavano via le stellette consegnando inermi le nostre città al nemico, prese da sé stesso l’iniziativa, fece molto di più che resistere; scelse la sua strada e scelse il suo nemico : e il suo primo nemico non fu solo l’alleato di un tempo, che aveva spezzato a calci di fucile le mani dei nostri alpini aggrappati in cerca di soccorso agli autocarri del Reich durante la ritirata di Russia, ma il fascista, la camicia nera, il marò della X Mas, lo squadrista che, deposto il ventennale doppiopetto del regime, torna a picchiare, i Ras della repubblica di salò, i soldati della infame repubblichina e della GNR, i militi del FAI ( polizia africa italiana ),  chè furono loro a fucilare Pietro Benedetti e ahimè tanti altri di cui con dolore andiamo rileggendo le ultime parole.

Il 25 aprile non è una ricorrenza.
E’ semmai il giorno che ci deve servire a misurare tutta la distanza che separa l’oggi da quell’incompiuto orizzonte di riscatto e di liberazione scolpito nella testa e nel cuore i combattenti partigiani.

In particolare oggi misuriamo l’infinita distanza che ci separa dalla applicazione della Costituzione della Repubblica di cui cito solo gli strali di due articoli, l’articolo 54 che recita “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge e l’articolo 41 che sostiene come l’esercizio dell’imprenditoria privata non possa svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

In questi mesi abbiamo assistito al triste cammino che va smantellando il senato elettivo della repubblica trasformandolo in una aula di nominati dai partiti e approntando, in un esplosivo combinato disposto, una legge elettorale straordinariamente simile alla legge Acerbo o alla Legge Truffa.

L’ANPI ha schierato le proprie bandiere in difesa della Costituzione repubblicana leggendo nel suo progressivo smantellamento il rischio presente di una torsione anti democratica, sapendo bene che ad ottobre noi non voteremo per la sopravvivenza di un governo o del suo leader ma per impedire un ulteriore strappo alla Costituzione, e quindi uno strappo alla democrazia, alla rappresentanza e al completo esercizio della sovranità popolare.

Battersi per la Costituzione è conservare come inquieto patrimonio di sangue l’eredità partigiana; è mantenere vivo un futuro dal lungo passato, è non desistere dal sogno di liberazione dell’uomo, è conservare per i nostri figli e nipoti la possibilità di leggere senza arrossire di vergogna per il tradimento che verrebbe compiuto le parole di Duccio Galimberti ammazzato il 2 dicembre ’44  quando scrive“ ho agito a fin di bene e per una idea. Per questo sono sereno e dovrete esserlo anche voi”.

Vorrei dedicare l’intera giornata a noi che siamo qui per testimoniare e per batterci per i valori universali dell’umanità e della libertà; a tutti noi che non ci siamo scordati di Duccio Galimberti. Viva la Resistenza Viva la Liberazione."

Nessun commento:

Posta un commento