FESTA DELLA LIBERAZIONE |
CON GRAZIELLA CERUTTI e MARIO CHESSA ANPI TERRITORIALE |
"C’
è un libro speciale - una vecchia edizione Einaudi - nella mia libreria. Mio
padre lo toglieva dallo scaffale, e sfogliandolo cercava il passaggio da
leggermi per le sere di allora, con la nebbia di fuori, l’ ordigno esploso in
quel dicembre alla Banca dell’Agricoltura, e noi che, non avendo la televisione,
ascoltavamo le notizie dalla radio, mentre nelle strade di Milano già mille
cortei di democratici e di lavoratori denunciavano la matrice fascista
dell’attentato di piazza Fontana.
Questo
libro contiene le lettere scritte nelle ultime ore di vita da partigiani e da
antifascisti condannati a morte. Tra le tante lettere vorrei proporvi quella
scritta del commissario politico prima zona di Roma, Pietro Benedetti classe
1902. Benedetti
era un uomo che viveva del proprio salario di ebanista in via Properzio n. 19.
Chieti. Figlio di proletari e proletario lui stesso, si era schierato subito
contro il fascismo, decifrando in esso la reazione estrema, brutale e spietata
del padronato che arma e finanzia le squadre nere per scatenarle militarmente
contro le classi lavoratrici che in quegli anni, a forza di scioperi e lotte,
andavano organizzandosi e conquistando i loro primi diritti – un salario
decente e un orario un poco meno massacrante.
Benedetti
vede dare alle fiamme le sedi dei partiti dei lavoratori e gli assalti
squadristi alle tipografie dei giornali “sovversivi”, vede bastonare i suoi
compagni lavoratori in sciopero, vede condannare all’umiliazione dell’olio di
ricino i braccianti e i capi lega, vede le camice nere spezzare le ossa alle
organizzazioni dei lavoratori, piange, forse, quando sa dell’assassinio ( anno
1921) del sindacalista ferroviere Spartaco Lavagnini a Firenze e
dell’assassinio a Roma ( anno 1924 ) del coraggioso deputato socialista Giacomo
Matteotti.
E
capisce che è solo l’inizio. Che presto il fascismo sarebbe dilagato,
cavalcando la parola d’ordine della “vittoria mutilata”, fino a stroncare la
fragile democrazia giolittiana, torcendo la parola “patria” fino a farne il
proprio vessillo, ammantato di nero, escludente chiunque non chinasse la testa
e la schiena davanti al dogma dell’infallibilità del Duce.
E’
comunista, Pietro Benedetti, ma per i massacratori fascisti che lo fucilano il
29 aprile ’44 sugli spalti di Forte Bravetta a Roma, poteva indifferentemente
essere socialista o azionista, mazziniano o anarchico, cattolico o non
credente.
Per
gli italiani in camicia nera tutti i partigiani e tutti gli antifascisti di
ogni credo politico o fede religiosa sono ugualmente traditori da passare per
le armi.
“Amate
la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui
sacrifici e qualche volta con la vita. Amate la madrepatria ma ricordate che la
patria vera è il mondo e ovunque vi sono vostri simili quelli sono vostri fratelli…”:
con queste parole Pietro Benedetti si congeda per sempre dai suoi figli e
questo addio acquista una stringente attualità perché rappresenta ancora oggi
il “punto di vista” di ogni antifascista davanti alla propria coscienza e
davanti al mondo. Le
parole del partigiano che sta per morire scardinano ogni tentativo di
trasformare la questione delle migrazioni dei popoli in questione di polizia –
da affrontare con fili spinati manganelli idranti cani poliziotti e nuovi muri
–; smontano le vergognose pulsioni xenofobe e razziste che legittimano i
respingimenti e avvallano, nell’immaginario di tanti, la tesi del migrante come
nemico, pericoloso straniero, potenziale terrorista, inquietante estraneo,
diverso per religione e per colore della pelle, portatore di rischi sanitari e
di ordine pubblico, fino a trasformarlo in soggetto responsabile dei mille mali
e delle mille persistenti ingiustizie del nostro Paese.
Noi
– antifascisti di oggi, cittadini che, serenamente torniamo a casa ogni sera
“trovando cibo caldo e visi amici” ( parafrasando Primo Levi ) dobbiamo essere
in prima linea per riaffermare i valori di un nuovo umanesimo solidale animati dalla
consapevolezza che la costruzione del migrante come nemico della civiltà
europea è una fandonia costruita ad arte, una finzione funzionale ad un grande
disegno di distrazione di massa, che nega le responsabilità vere delle
diseguaglianze e delle guerre, che risiedono nell’accaparramento delle ultime
risorse energetiche e nell’insaziabile voluttà di profitto del capitalismo
finanziario per il quale donne e uomini, popoli e Paesi altro non sono che
trascurabile merce da triturare nel grande mercato che globalizza la crescente
miseria e moltiplica le paurose diseguaglianze.
Attorno
ad una parola infame e priva di ogni fondamento scientifico -che è la parola “razza”-
in tutta l’Europa cresce l’ odio xenofobo che portò i comuni cittadini tedeschi
a farsi complici della strategia eliminazionista del Reich che mandò a morte i
sub umani esclusi del magico cerchio della razza perfetta e attorno alla parola
“sicurezza”, forzata ad arte, si coagulano sigle para fasciste come Casa Pound
che, levando il braccio nel saluto romano e allineando le proprie camice nere alle
camice verdi, sognano il giorno in cui potranno marchiare la carne martoriata
dei richiedenti asilo con la parola nemico e, nel proprio armamentario
ideologico, rispolverano le mitologie dell’italianità trionfatrice, che ahimè
ricordiamo bene perché applicata da comuni soldati italiani nell’ Etiopia bombardata
con i gas o nei Balcani cinti dal filo spinato dei lager italiani – Paesi,
questi, che, nel dopoguerra, vanamente richiesero al nostro Paese
l’estradizione dei criminali di guerra italiani. Se
la nuova frontiera dell’ANPI, come ha ribadito il nostro Congresso, sta nella
battaglia contro ogni forma di razzismo xenofobo, il nostro primo dovere
statutario resta quello di trasmettere la memoria di quella stagione in cui
uomini e donne presero le armi per combattere o ripresero voce e parola per
pronunciare il NO inflessibile di ogni essere umano libero e giusto di fronte
alla vergogna e alla barbarie.
Noi
chiamiamo i venti mesi con un nome bellissimo: “Resistenza”.
Ma
dobbiamo anche sapere che quella italiana, a differenza della resistenza
polacca, francese, belga, russa, non è stata solo una “resistenza contro
l’esercito tedesco occupante”, ma un attacco, una iniziativa, una azione di
riscatto di sé, una anabasi civile, una lotta per la liberazione dalla
dittatura, nata nel nostro Paese, e in esso cresciuta come una mala pianta.
L’azione
dei partigiani, dei gappisti, dei sabotatori, degli operai in sciopero, delle
donne all’assalto dei forni di Roma o Torino, delle staffette come la nostra
Luigina Albergati, non fu soltanto una conseguenza della brutalità
dell’occupazione tedesca ma fu lotta di popolo contro il fascismo che, dopo il
massacro delle organizzazioni dei lavoratori, si insediò al cuore dello Stato,
si fece Stato impiegando come proprie armi la sordida complicità di casa savoia
e l’indifferenza generalizzata – il grande male sociale, di cui limpidamente
scrive Antonio Gramsci nelle sue lettere dal carcere.
Il
popolo italiano, trovatosi all’otto settembre senza Stato, mentre i generali
del Regio Esercito come Adami Rossi a Torino si strappavano via le stellette consegnando
inermi le nostre città al nemico, prese da sé stesso l’iniziativa, fece molto
di più che resistere; scelse la sua strada e scelse il suo nemico : e il suo
primo nemico non fu solo l’alleato di un tempo, che aveva spezzato a calci di
fucile le mani dei nostri alpini aggrappati in cerca di soccorso agli autocarri
del Reich durante la ritirata di Russia, ma il fascista, la camicia nera, il
marò della X Mas, lo squadrista che, deposto il ventennale doppiopetto del
regime, torna a picchiare, i Ras della repubblica di salò, i soldati della
infame repubblichina e della GNR, i militi del FAI ( polizia africa italiana
), chè furono loro a fucilare Pietro
Benedetti e ahimè tanti altri di cui con dolore andiamo rileggendo le ultime
parole.
Il
25 aprile non è una ricorrenza.
E’
semmai il giorno che ci deve servire a misurare tutta la distanza che separa
l’oggi da quell’incompiuto orizzonte di riscatto e di liberazione scolpito
nella testa e nel cuore i combattenti partigiani.
In
particolare oggi misuriamo l’infinita distanza che ci separa dalla applicazione
della Costituzione della Repubblica di cui cito solo gli strali di due
articoli, l’articolo 54 che recita “I cittadini
cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con
disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge e
l’articolo 41 che sostiene come l’esercizio dell’imprenditoria privata non
possa svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno
alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
In
questi mesi abbiamo assistito al triste cammino che va smantellando il senato
elettivo della repubblica trasformandolo in una aula di nominati dai partiti e approntando,
in un esplosivo combinato disposto, una legge elettorale straordinariamente
simile alla legge Acerbo o alla Legge Truffa.
L’ANPI
ha schierato le proprie bandiere in difesa della Costituzione repubblicana
leggendo nel suo progressivo smantellamento il rischio presente di una torsione
anti democratica, sapendo bene che ad ottobre noi non voteremo per la
sopravvivenza di un governo o del suo leader ma per impedire un ulteriore
strappo alla Costituzione, e quindi uno strappo alla democrazia, alla
rappresentanza e al completo esercizio della sovranità popolare.
Battersi
per la Costituzione è conservare come inquieto patrimonio di sangue l’eredità
partigiana; è mantenere vivo un futuro dal lungo passato, è non desistere dal
sogno di liberazione dell’uomo, è conservare per i nostri figli e nipoti la
possibilità di leggere senza arrossire di vergogna per il tradimento che
verrebbe compiuto le parole di Duccio Galimberti ammazzato il 2 dicembre ’44 quando scrive“ ho agito a fin di bene e per
una idea. Per questo sono sereno e dovrete esserlo anche voi”.
Vorrei
dedicare l’intera giornata a noi che siamo qui per testimoniare e per batterci
per i valori universali dell’umanità e della libertà; a tutti noi che non ci
siamo scordati di Duccio Galimberti. Viva la Resistenza Viva la Liberazione."
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