martedì 26 maggio 2015

PROCESSO alla RESISTENZA:il caso di Renato Tisato



copertina della pubblicazione

Pubblichiamo uno stralcio della relazione tenutasi in occasione della presentazione della pubblicazione "Renato Tisato la storia e la memoria", realizzata dalla sezione Onorina Pesce.
La pubblicazione patrocinata dall’ANPI Verona, ripercorre con documenti inediti la storia di Renato Tisato, gappista di Verona, compagno della Medaglia d’oro Lorenzo Fava, comandante della Brigata Verona Libera, dal dopoguerra fino alla morte professore di pedagogia presso alcuni istituti superiori e poi presso l’università di Pavia.

Come ufficiale dell’esercito di liberazione nazionale, Tisato assunse su sé, nell’assemblea dei Comandanti della zona pianura, la responsabilità politica, civile e penale del giudicare quali tra gli esponenti e gerarchi della RSI catturati a Verona nei giorni della Liberazione si fossero macchiati di tali delitti e di tali efferatezze da essere condannati alla pena capitale, eseguita il primo maggio ’45. Per questa “azione di guerra” [ perché tale fu ] fu oggetto di una inchiesta formale, notificatagli dal Distretto Militare di Verona nel 1957, anno buio nel buio periodo della scelta filo atlantica del nostro Paese, della guerra fredda e della contestuale repressione anti partigiana ed anticomunista.

Almeno due ragioni che ci hanno motivato all’indagine sulla sua figura.

La prima ci viene indirettamente suggerita dagli studi di Claudio Pavone che individua nell’enfasi retorica, nello sfavillio delle fanfare, nel garrire dei tricolori, nell’annacquamento della Resistenza interpretata come prosecuzione della lotta risorgimentale il modo peggiore di ricordare i venti mesi di lotta per la libertà, che furono piuttosto, almeno in parte, la resa dei conti, solcata da suggestioni rivoluzionarie, della lotta di classe vinta dalla reazione fascista negli anni ’20.

Da questo punto di vista Tisato è una figura emblematica.

Tranne che confidarsi in qualche raro momento con pochi amici, Tisato osservò un quasi totale silenzio sulla sua partecipazione alla lotta resistenziale.

La sua “afasia”, la sua totale assenza di vanto, il suo “pudore” nel tenere celata agli occhi del mondo la sua scelta ci hanno profondamente colpito.

E in qualche misura ci hanno convinto che forse a “tradire” la Resistenza è stato ed è proprio l’eccesso di oratoria che ne ha contagiato le commemorazioni, insieme all’enfatica convinzione che in tutto il Paese “tutti” fossero stati partigiani e “tutti” avessero una stessa legittimità di rivendicare il sangue dei morti partigiani, di condividere il dolore dei fucilati e dei torturati al punto di dissolverlo in una generica pietà per i defunti che comprende vittime e aguzzini, assolve i carnefici, annulla ogni differenza tra uomini in camicia nera e uomini senza divisa di un esercito senza stellette nato dalla consapevole rottura con gli orpelli del Regio Esercito, che, tranne rari casi e gloriose storie individuali, come quella della Divisione Acqui o quella di Pompeo Colayanni che da ufficiale dell’esercito si fece comandante partigiano, si liquefece all’otto settembre.

Tace, dunque, Renato Tisato. 

Tace perché l’Italia del dopoguerra ha posto in essere una fortissima restaurazione moderata e filo atlantica, ha mancato la scelta radicale della rigorosa epurazione e ha lasciato spazio ad una martellante persecuzione antipartigiana.

E allora c’è ritegno a dire che si è stati partigiani e paura a dire che si è stati partigiani comunisti.

Siamo tra il finire degli anni ’40 e gli anni ’50.

Sono gli anni di Scelba, delle madonne piangenti recate in processione nella campagna elettorale del ’48, del piano Marschall, della riorganizzazione fascista nel MSI, della guerra fredda, sono gli anni in cui, al bivio tra rinnovamenti radicali e ripristino di vecchi apparati, l’Italia privilegia la seconda ipotesi, polverizzando la radicalità della eredità partigiana.

Renato Tisato, gappista e comunista, tace e tace perché la desiderata, sognata, auspicata discontinuità tra dittatura e democrazia è stata

“tradita” [come sostiene GL già a fine aprile ’45, scrivendo in un proprio foglio “ “sentiamo attorno a noi il sapore delle parate, della retorica, dei grossi affari. Se potessimo leggere nel cuore di molti generali, prefetti, industriali vi leggeremmo la parola: fascismo”],

 “attutita” dalla riemersione di personaggi che si pensava dovessero per sempre uscire di scena quali Azzariti, già presidente del tribunale della razza e viceversa insignito di un incarico prestigioso alla presidenza della corte costituzionale,

 “ammortizzata” a tale punto da indurre Sandro Pertini a scrivere “ l’epurazione è mancata. Si era detto che si doveva colpire in alto e non in basso ma nella pratica non si è colpito né in alto né in basso…”

Mentre la Francia libera fucila 10.500 collaborazionisti, per due terzi senza condanna formale, e celebra 170.000 processi contro circa 125.000 imputati, mentre la Norvegia arresta per filo nazismo 90.000 persone su 3 milioni di abitanti, mentre in Belgio si compiono 87.000 processi che portano ad oltre 1000 pene capitali e l’Olanda compie 135.000 arresti, in Italia dove pure il fascismo era nato non accade niente di tutto questo.

Renato Tisato tace perché nel dicembre 1952 vengono prosciolti ( alcuni per amnistia altri per non avere commesso il fatto ) comandanti e quadri della XXXVI Brigata Nera Mussolini già condannati all’ergastolo nel novembre 1945 (cit. Franzinelli una odissea partigiana).

Tace perché, mentre pesci grandi e pesci piccoli della dittatura escono in massa dalle patrie galere, la repubblica processa il partigiano biellese Francesco Moranino.

Tace perché i tribunali italiani non esitano ad utilizzare come prova i verbali redatti dalla GNR, struttura portante della RSI.

Tace perché a Castelfranco Emilia il maresciallo Silvestro Cau diventa famoso per dirigere le proprie indagini contro ex partigiani con l’impiego di mezzi di tortura.

Tace perché già nel ’48 avvocati ed antifascisti si sono visti costretti a costituirsi in Comitati di Solidarietà democratica a difesa dei partigiani inquisiti, arrestati e processati come criminali comuni, là dove il misconoscimento della legittima belligeranza rappresenta l’antefatto giuridico per la perseguibilità penale delle azioni resistenti.

Questa è, forse, la ragione del prolungato silenzio di Tisato e in questo contesto è maturato il procedimento intentato a suo carico dalla Repubblica.

…Verrà un giorno in cui dovremo vergognarci di aver combattuto contro il fascismo. E costituirà colpa essere stati in carcere e al confino per questo”, la citazione è ancora di Sandro Pertini.

 

Ci terremmo che la pubblicazione “Renato Tisato-la storia e la memoria” della sezione Onorina Pesce diventasse occasione di ragionamento sul dopo guerra, approccio per meglio conoscere quello che è stato, radice di mali e di minacce neo fasciste che attraversano ancora oggi le nostre strade, con un pensiero che va già al 25 aprile 2016: perché non ricordare in quella data il 25 aprile 1946, i partigiani finiti sotto processo per azioni di guerra, i combattenti come Tisato, umiliati dalla Repubblica per la quale avevano preso le armi, i cittadini antifascisti cui venne fatto divieto, mentre il governo democristiano scacciava dalla Prefettura di Milano Ettore Trojlo, già comandante dei partigiani della Mayella, di manifestare e di rendere omaggio ai propri morti fucilati dalla Muti a Piazzale Loreto?

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