"Mio fratello Carlino mi chiamava con un fischio speciale che conoscevamo solo noi due. Mi aspettava nascosto vicino alla ghiacciaia. Non
poteva avvicinarsi alla cascina. Perché era partigiano. Perciò ricercato dalla Brigata Nera
e dai tedeschi. Se l’avessero preso l’avrebbero torturato e impiccato.
Poi
avrebbero bruciato la cascina e noi che ci stavamo dentro. Io sono
nato nel ’31, ultimo di dieci figli. Avevo otto anni meno di Carlino, ma lui si
fidava completamente di me. Mi consegnava dei
biglietti da portare a Peppino
Abbati della 168° Brigata Garibaldi oppure ad un altro partigiano, Gino
Lanfranchi, che, pur costretto dai tedeschi al lavoro coatto nella Todt, aveva
abbastanza libertà di movimento. Mio fratello non mi ha mai detto cosa ci fosse
scritto; nemmeno dopo la guerra. La sua grande forza era il silenzio. Una volta mi ha dato una rivoltella. Me l’ha fissata alla cinta dei pantaloni, con
l’impugnatura alla schiena. ”Stessa
destinazione” mi ha detto. IL PARTIGIANO CARLO PIETRA in una immagine scattata negli anni '50. Pietra è con la giacca chiara, accanto alla bandiera. |
Nel gennaio '44 un compagno della Brigata 168°, tutti ragazzi delle
nostre campagne, ha sfidato le pattuglie e i posti di blocco per venire a dirci
che Carlino era stato portato via dalla Brigata Nera durante una retata a Pavia.
Dopo che hanno arrestato Carlino ogni giorno mia madre ripeteva “me l’hanno
ammazzato, me l’hanno ammazzato” e ogni sera mio padre saliva le scale con
un passo pesante da uomo vecchio. Poverino, sperava tanto che Carlino fosse
tornato a casa. Poi, al solito, vedeva la seggiola vuota, si buttava giù con un
sospiro da spezzare il cuore.
Nell'aprile '45, poco prima della Liberazione, una mattina prestissimo quelli della Brigata Nera sono arrivati a casa nostra, in via Aselli, dove eravamo andati ad abitare. Cercavano mio fratello. Ci hanno puntato addosso i mitra, hanno urlato e minacciato. Poi, forse, hanno sentito dei passi giù in strada e hanno pensato che stessero arrivando i partigiani. Se ne sono andati via.
Quando
se ne sono andati, mi son seduto per terra. Mi veniva da vomitare. Era tanto lontano il tempo in cui il mio Carlino mi aspettava vicino alla ghiacciaia.
Dovevo
rassegnarmi. La guerra era finita, ma mio fratello non ce l’aveva fatta. Non era
tornato a casa. La Brigata Nera l’aveva fucilato. I tedeschi l’avevano
massacrato di botte. Gli avevano aizzato contro i loro cani mastini. Forse era
morto da mesi. Con un proiettile in testa. Impiccato. Caduto combattendo
durante una azione. Il cadavere di Carlino era in un fosso, sul ciglio di una strada,
crocifisso ad un palo….Io speravo che, almeno, fosse morto in fretta e che non
l’avessero torturato.
Invece una notte, a fine aprile '45, sento in fondo alle scale un fischio speciale. Conoscevo quel fischio. L'avrei ricoosciuto tra mille.
Sono corso giù in pigiama a piedi
nudi, e lui già era a metà della prima rampa di scale. Saliva tranquillo pian
piano, tenendosi al corrimano. Gli sono volato addosso e solo in in quel momento mi sono accorto che aveva il torace bendato e gli occhi
stravolti. “E’ stata dura” – mi ha detto.
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