mercoledì 6 agosto 2014

A CONQUISTARE LA ROSSA PRIMAVERA



Pubblichiamo il racconto partigiano di Gipo Anfosso- Direttivo sezione Onorina Pesce



A Nino, che mi ha ricordato la crudeltà della guerra



“Allora, oggi u megu Pavia propone il menù ‘Rossa primavera’. I signori clienti sono pregati di sistemarsi ai tavoli”. La mia risata trascina al sorriso i ricoverati nell’ospedaletto di Drondo, a Triora. In questa terra rude, piegata dall’uomo in rugose terrazze per consentire una faticosa sopravvivenza, io sono il medico. Non sono ancora laureato, ma qui non c’è spazio per questi dettagli, sono e devo essere u sciu megu. E per tutti sono Pavia, nome di battaglia scelto a ricordo della città dei miei studi dove voglio tornare.





Al mio richiamo gli uomini che possono ancora camminare si alzano stancamente dalla fascia dove, come mucchi informi, stavano spremendo tutto il calore del sole. Altri restano sui loro pagliericci, impossibilitati a muoversi, ma tutti finalmente cominciano a mangiare e a ritemprarsi con qualcosa di caldo in questa giornata di fine febbraio, secondo anno di guerra partigiana.

Appena terminato il pasto, l’attenzione di tutti è attirata da una colonna di civili e garibaldini di Bregalla e Creppo che stanno risalendo Gerbonte per andare a Cima Marta e lanciano urla cariche di entusiasmo verso di noi. Decidiamo di seguirli, perché a cima Marta è avvenuto il lancio di molti paracaduti da parte di aerei che ancora si muovono in cielo.

Cima Marta è una postazione ambita, con la caserma costruita dai fascisti negli anni ‘30 e i suoi 2000 metri di altezza che ne fanno un punto di osservazione unico. Contiamo di trovare cibo e armi, qualche sten che possa darci coraggio.

Vittò, il nostro comandante, ricoverato per problemi di fegato, è titubante: “Pavia, stai attento. I tedeschi sono ancora lì. Siate prudenti, tu sai che è difficile arrivare senza essere visti. Tieni il mio binocolo e buona fortuna.”

Partiamo in otto. “Ce la fa-fa-faremo?” chiede Albanese con la balbuzie che si accentua a rivelare la sua agitazione.

“Oggi sarà una giornata da ricordare - dice con sicurezza Mercurio - perché segna l’inizio della riscossa. Sono sicuro che cominceremo a scendere a Sanremo. Ma ve lo ricordate il mare voi?”

“Se penso a Sanremo - dico io - mi immagino i miei malati al caldo, in una fila di letti,  bianchi di lenzuola pulite, senza pidocchi.”

Pavia, allora pensiamo a un mondo che non ha bisogno di ospedali” ribatte Mercurio, travolto dal suo stesso ottimismo.

Saliamo leggeri, sorridiamo come se non fossimo in guerra, come se la fame e il sonno e la fatica e la voglia di un letto caldo fossero già un lontano e prezioso ricordo, da tradurre in parole per affidarle ai nostri figli.

Siamo ormai sotto Sanson, non manca molto alla cima, quando una raffica di mitragliatrice cambia il corso dei nostri pensieri. Il rumore arriva da Cima Marta; subito dopo, dal campo dove è avvenuto il lancio, si sentono altri spari e capiamo che la colonna di Bregalla e Creppo che ci precedeva è stata attaccata. Dobbiamo ripiegare verso Gerbonte. Le donne, ansiose, ci chiedono se abbiamo notizie, se abbiamo capito cosa sta succedendo.

“Sciu megu, mio figlio, mio figlio, 18 anni, dov’è? Dov’è?”

Provare a placarle serve a poco. Il silenzio e il perdurare dell’attesa senza notizie sono un segnale che qualcosa non ha funzionato, che siamo caduti in un tranello. Lo confermeranno, di lì a poco, mentre sta per venire buio, Luca e il maestro Grinda. Raccontano che, arrivati al campo di lancio senza trovare nessuno, sono stati attaccati mentre cominciavano ad aprire i pacchi e sono fuggiti come potevano e non hanno notizie degli altri. In una tensione che non può trovare sfogo, arrivano alla spicciolata altri.

“Natale è morto. L’abbiamo visto colpito dai tedeschi mentre cercava di montare uno sten per farli fuori tutti. Bastardi!”

L’insulto viene urlato a bassa voce, manca la forza, subentra la disperata rassegnazione di chi pensava di essere vicino al traguardo e scopre che la strada è ancora lunga.

Arrivano Remo e Nino. Quest’ultimo ci dice che Mario dei Bruzzi, suo fratello, è ferito alla coscia, vicino alla caserma di Cima Marta e che si deve andare a recuperarlo con una barella. Devo decidere e organizzare in fretta: ho bisogno di uomini per risalire Cima Marta e soccorrere Mario. Sono scelte difficili: un compagno aspetta il nostro aiuto ma rischio di mandarne allo sbaraglio chissà quanti. In quel momento arriva Martin tutto contento per essere riuscito a portare via uno sten. In modo del tutto irragionevole, questo piccolo segnale positivo mi fa decidere: dobbiamo agire. Do l’ordine di ripartire e di chiamare a raccolta le persone disponibili. Si presentano tutti quelli che hanno già partecipato all’azione nel pomeriggio. C’è anche Antonietta Bracco, signorina, infaticabile camminatrice, coraggiosa e silenziosa, sempre presente quando c’è da salvare qualcuno, da recuperare alla vita un compagno.

Sono le 23 e una luna quasi piena ci guida per una strada che nelle due ultime ore di marcia sappiamo essere coperta di neve. Il freddo ci assedia mentre, passo dopo passo, saliamo protetti dal bosco che ci nasconde. La stanchezza si fa sentire nelle scarpe, più pesanti e fradice di umidità. Siamo a mezz’ora da dove è stato lasciato Mario, al confine tra bosco e pascolo, tra gli alberi che ci nascondono e una luna ostile che ci rende troppo visibili.

L’attimo di indecisione è interrotto da una raffica di spari. Ci fermiamo, non possiamo proseguire tutti. Decido di avanzare da solo con Nino. La neve arriva alle ginocchia, gli spari cadenzano i nostri passi. Ma fa ancora più paura il rumore delle scarpe dei tedeschi. Le battono a terra per vincere il freddo e in quella notte, chiara di luna e di neve, il rumore risuona sinistro, implacabile come le rare e secche parole che si scambiano tra loro.

 Proseguiamo. I tedeschi sono sempre più vicini e i loro rumori sempre più stringono la gola e gelano il cuore. Sento una raffica passarmi vicina, mi volto verso Nino e vedo una macchia scura, a pochi passi da lui. Non penso più ai tedeschi, mi precipito.

E’ Mario, la faccia riversa nella neve. Lo tiro su per i capelli e lo sollevo per guardargli il viso sperando sia solo svenuto. Il colore delle labbra, gli occhi sbarrati, il corpo freddo fanno cadere ogni speranza. Mario è morto, già da qualche ora, tra cielo e neve, solo, con i lugubri rumori dei soldati tedeschi.

Sale un urlo fino alla gola, ma non può uscire. Allora scendono lacrime che si ghiacciano sul viso, mentre istintivamente io e Nino ci inginocchiamo davanti a Mario e giungiamo le mani. Non siamo capaci di pregare, ma io penso dentro di me che se esiste un dio, e ha accettato tutto questo, deve anche far finire tutto, deve farlo finire al più presto e restituire agli uomini di tutto il mondo la loro dignità, a tutti  i giovani la loro primavera.

Sta per spuntare l’alba. Ci guardiamo attorno alla ricerca di altri garibaldini, di altri corpi, ma la ricerca è vana e decidiamo di tornare. Il ritorno è triste e silenzioso.

Nino dice: “Pavia, quest’inverno è lungo da passare.”

Non ho la forza di rispondergli. Ho davanti a me l’immagine di Mario, la donna di Case Bruzzi che mi chiede notizie del figlio, i miei malati in mezzo alla paglia e ai pidocchi.

A un certo punto vediamo un paracadute con un  pacco ancora attaccato. Il pacco è piccolo, ma a noi le armi sembrano tante. Tante quante ne servono per combattere un nemico che non ha pietà, tante quante ne occorrono per tutti quelli che si uniranno nella lotta per la libertà, tante e da buttare via appena il buio sarà vinto.

Ci dividiamo le armi, poi scendiamo abbracciandoci per un pezzo e dico a Nino: “Coraggio, con queste la primavera arriverà prima.”

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