mercoledì 9 novembre 2016

GORIZIA TU SEI MALEDETTA



Pubblichiamo l'intervento di apertura alla iniziativa ANPI " Gorizia tu sei maledetta"  5 novembre 2016 Camera del Lavoro) di Annalisa Alessio - direttivo ANPI Pavia. Presenti rappresentanze istituzionali e l'on. Scanu, sulla cui proposta di legge interverremo in seguito.

"Anno 1964. Festival dei due mondi. Spoleto. E’ in corso uno spettacolo musicale. Si chiama Bella Ciao. Quando sul palco risuonano le prime note di Gorizia – teatro del massacro dei 50.000 soldati italiani, e dei 40.000 soldati degli imperi centrali 10 agosto 1916 – qualche bisbiglio scandalizzato rompe il ritmo. Michele Straniero continua a cantare. I bisbigli trasmutano in parapiglia. Nei giorni successivi gruppi fascisti tentano di interrompere il canto di Gorizia. Fine Festival: gli esponenti del gruppo Nuovo Canzoniere Italiano vengono denunciati per vilipendio alle forze armate.
Anno 2015. Massa Carrara. E’ in corso la commemorazione della vittoria 1918. Parla il sindaco che dice “siamo qui in piazza Gramsci, che tutti però chiamano piazza d’Armi, quindi siamo ben lieti di ospitare la cerimonia”. Una signora interrompe il rituale e intona Gorizia. Si chiama Soledad Nicolazzi; è una cantante e una attrice. Tre rappresentanti delle forze dell’ordine intervengono e allontanano la signora dalla piazza. (cit. Il Tirreno 8 novembre 2015).

Noi abbiamo scelto questa canzone perché riteniamo il suo testo coerente con la scelta della sezione ANPI Onorina Pesce di non partecipare alle commemorazioni ufficiali della grande guerra. Con questa iniziativa vogliamo tornare ad essa con una memoria libera sottratta alla mistica nazionale e al presunto mito redentore di Vittorio Veneto.

Cosa rende “sovversiva” questa canzone?

Forse il fatto che essa dà parole al taciuto della grande guerra e disvela l’inganno collettivo del suo ricordo.

Già il verso d’apertura “sotto l’acqua che cadeva a rovesci” dilava via “l’inconscio accordo” ( cit. Monticone Forcella ) di intere generazioni avvezze a specchiarsi nella liturgia della grande guerra come punto di unione della nazione – anche Ciampi nel 2005 definì il IV novembre come “giorno della memoria comune” degli italiani - 

Mentre i versi successivi “qua si muore gridando assassini” denunciano il ricatto patriottico, strappano la maschera di paterna guida disegnata sul volto dei Generali, il passaggio finale “questa guerra ci insegna a punir” chiama anzi ad una resa dei conti contro Stati maggiori e classe dirigente la truppa, non quella immaginaria nella edulcorata immagine della copertina della Domenica del Corriere, ma quella autentica “ “trascinata per la gola e troppo spesso portata avanti fino alla morte dagli spettri  della polizia militare e dei plotoni di esecuzione”. ( Forcella Monticone Plotone di esecuzione – i processi nella prima guerra mondiale ed Laterza) .

Gorizia è il testo che impone di guardare la grande guerra per quella che è stata.

Non guerra di patriottica difesa, cui un grande romanzo popolare prima o dopo avrebbe dato parole sulle quali piangere o riflettere, come avviene in America con Addio alle Armi. Un romanzo del genere in Italia non è mai stato scritto: perché al posto di una narrazione collettiva la grande guerra e la sua memoria partorirono l’arditismo fascista e la dittatura.

Guerra di aggressione, decisa con un colpo di stato “bianco”, avvallata in stanze segrete, legittimata ad insaputa al Parlamento messo davanti al fatto compiuto, trasmutata in eroico idillio nazionale, in realtà nido generatore delle condizioni per la nascita della dittatura: l’autoritarismo dell’esecutivo, la prevaricazione della legittimità democratica, il livore antipopolare degli Stati Maggiori militari e dei corpi dello Stato, il graduale costituirsi di un blocco sociale eterogeneo tra la piccola borghesia cittadina impaurita dal pericoloso rosso e i profitti dell’industria pesante ammantatasi delle parole patria e onore, sprigionanti un venefico contagio anche tra gli esclusi da ogni profitto, definiscono già leggibili i tratti del fascismo che prende le mosse dallo smantellamento del movimento dei lavoratori e dall’azzeramento cruento delle sue avanguardie.

Mentre le parole di Gorizia accompagnano la nostra riflessione, ci vengono alla mente le parole di un oscuro caporale austriaco. Nel proprio diario – edito nel 1925 con il titolo di Mein Kampf, riedito e offerto in omaggio insieme al quotidiano Il Giornale l’11 giugno scorso – l’oscuro caporale a nome Hitler bolla come “oltraggio” ( cit. La tregua di Natale ) all’onore tedesco quel breve episodio noto con il nome di tregua di Natale che, non ammutinamento, non ribellione organizzata, fu solo il breve sussulto di una giovane umanità che non voleva morire. O le parole di un Mussolini che - anno 1919-, descrivendo l’assalto alla sede dell’Avanti socialista scrive “tutti gli squadristi del fascio milanese erano andati all’assalto del quotidiano l’Avanti come sarebbero andati all’assalto di una trincea austriaca” ( cit. Franzinelli Squadristi)

O, infine, le parole pronunciate in una aula parlamentare. ”…che errori di uomini vi siano stati, che colpe vi siano state, è indifferente alla nazione. La verità è che abbiamo vinto e che la vittoria ha sanato tutto. Varie sono le formule della morale, ma la morale del mondo in fondo è una sola: chi vince ha ragione”.

Escono dalla bocca di Saverio Nitti, Presidente del Consiglio. Il lessico della dittatura è già inscritto nel lessico della grande guerra.

 E’ il 13 settembre 1919. La censura militare -dieci anni di galera a chi con “qualsiasi mezzo avesse commesso o istigato a commettere un fatto che potesse deprimere lo spirito pubblico o altrimenti diminuire la resistenza del paese” (cit.la prima guerra mondiale a cura di Mario Isnenghi) è appena stata abolita e “l’Italia contadina e operaia si alzava a chiedere conto della guerra, dei morti, delle sofferenze”( cit. Giorgio Rochat) e forse, aggiungiamo noi, anche degli enormi profitti del capitale ingrassato dalle commesse di guerra.

E’ necessario imporre il silenzio; disciplinare le masse alla cieca obbedienza, esaltata come virtù del soldato nelle trincee e assunta dal regime fascista come paradigma di vita.

Mentre il fascismo si appropria dell’intera memoria della grande guerra e ne fa pilastro dei propri paradigmi cognitivi, le parole di Saverio Nitti gravano come lastra di piombo sull’elaborazione collettiva della grande guerra.

Le commemorazioni del IV novembre trasmutano nei decenni quasi immutate; reiterate, con una sorta di malsana continuità tra Stato fascista e Stato post fascista, nella immutabilità dei luoghi sacrali, delle corone di fiori, degli inni e delle fanfare. Sommessamente, senza esplicite fratture, quasi in sordina, la Repubblica si limita a cancellare la denominazione “giornata della vittoria” sostituendola con la più neutrale denominazione “giornata della unità nazionale e delle forze armate”.

Per uscire dalla afasia di una guerra non raccontata, consegnata come patrimonio al fascismo, occorre uscire dall’Italia e cercare altre parole. Quelle contenute in un libro edito nel 1931 e subito consegnato dai nazisti alle fiamme purificatrici dei roghi : “ ci dissero patria e intendevano i progetti di occupazione di una industria famelica, ci dissero onore e intendevano i litigi e i desideri di potenza di un pugno di diplomatici ambiziosi e di principi, ci dissero nazione ed intendevano il bisogno di attività di alcuni generali disoccupati. Nella parola patriottismo hanno pigiato tutte le loro frasi, la loro ambizione, la loro avidità di potenza, il loro romanticismo bugiardo, la loro stupidità, il loro affarismo e ce l’hanno presentato come un ideale radioso. E noi abbiamo creduto che fosse la fanfara trionfale di una esistenza nuova... Abbiamo fatto la guerra contro noi stessi, senza saperlo. E ogni proiettile che colpiva nel segno colpiva uno di noi.”( cit.  Remarque la via del ritorno)

A dare continuità “al chi vince ha ragione” di Saverio Nitti ci penseranno gli squadristi. Per gli uomini in camicia nera non parlano le parole, ma il rombo di un camion: è il modello Fiat 18BL, cassone alto, ruote di gomma piena, possibilità di carico 15 uomini. Il camion esce dagli arsenali della grande guerra, e parte per la spedizione punitiva. I primi morti saranno trascinati nel fango, insieme ai vessilli dell’internazionalismo proletario. D’ora in poi è ammessa una sola parola: Italia fascista. 

Per questo abbiamo qui con noi l’onorevole Scanu, primo firmatario del progetto di legge per la riabilitazione delle vittime della giustizia sommaria sui fronti, uno dei pochissimi gesti concreti con cui la Repubblica mostra di voler fare i conti con la memoria di una guerra ancora inquietante.

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