giovedì 1 ottobre 2015

WE REMEMBER, WE DO NOT CELEBRATE


In preparazione delle celebrazioni del centenario della "grande guerra" la nostra sezione rende pubblico il proprio documento, e, ribadendo la posizione già espressa in Comune all'incontro con le Associazioni Combattentistiche e d'Arma, chiede che l'anniversario sia occasione di seria riflessione storica, e non luogo di vane celebrazioni di sapore retorico e dannunziano.
l'ANPI PAVIA RICORDA, NON COMMEMORA
E ricorda [modalità ingresso in guerra]
L’Italia non entrò in guerra perché animata da un insopprimibile desiderio di combattere contro il vecchio ordine reazionario europeo. Legata agli imperi centrali da un trentennale trattato – rinnovato nel 1912 - l’Italia (Ministro Esteri Sonnino; presidente del Consiglio Salandra) condusse ad insaputa del Parlamento trattative segrete
sia con gli Imperi Centrali, barattando la propria neutralità con alcuni vantaggi territoriali, sia con le Forze dell’Intesa, analogamente barattando anche con esse la propria entrata in guerra con altri vantaggi territoriali ed economici.
Le trattative si protrassero, in clima di segretezza, escludendo il Parlamento, fino a concludersi con il Patto di Londra che, siglato il 26 aprile 1915, prevedeva l’entrata in guerra del nostro Paese a fianco delle forze dell’ Intesa entro un mese, a fronte della promessa di ottenere il Trentino il Tirolo meridionale Trieste e la Dalmazia.
Gli stati maggiori militari non avevano neppure lontanamente pensato alla possibilità di spezzare della Triplice a favore di una alleanza bellica a fianco dell’Intesa. Anzi si arrivò a consigliare, l’”unità operativa delle truppe della Triplice facente capo ad un unico concetto direttivo”. (nota del gen. Cadorna al capo dell’esecutivo luglio 1914)
Ricordiamo quindi il vile opportunismo del gen. Cadorna, che, successivamente posto al Comando Supremo, non aveva ritenuto né folle né incoerente dichiarare a)in data il 25 settembre 1914 l’impreparazione dell’esercito italiano ; b)proporre in data 31 luglio 1914 l’entrata in guerra accanto agli imperi centrali, e c)sostenere in data il 3 agosto la necessità dell’immediato concentramento delle truppe italiane in Veneto [trascurando le pesanti carenze della rete delle infrastrutture ferroviarie] così da realizzare la mobilitazione immediata contro l’Austria. (Fonte: Piero Pieri l’Italia nella prima guerra mondiale ).
Tutto questo la dice lunga, pur in brevissima sintesi, sulla mentalità e sull’assoluta impreparazione della classe dirigente italiana e dei supremi comandi militari.
Ben lungi dal rappresentare un atto inteso alla conquista di maggiori libertà democratiche, in una Europa radicalmente rinnovata, l’entrata in guerra dell’Italia rappresentò piuttosto una sorta di colpo di stato parlamentare ( fonte Giuliano Procacci storia degli italiani ), nella convinzione che una guerra breve e vittoriosa [convinzione, questa, maturata a seguito della brusco arresto della avanzata germanica sulla Marna] avrebbe facilitato “mediante l’instaurazione di una maggiore disciplina nel Paese una involuzione in senso autoritario e novantottesco dello Stato [ Stato che nei giorni dell’attentato di Sarajevo mandava 100.000 uomini delle forze dell’ordine contro i non numerosissimi e non armati braccianti in sciopero della Romagna] avrebbe dato respiro alle forze della conservazione e dell’ordine costituito, allontanando minacce sovversive” e stroncando anche la pur cauta politica giolittiana della “mano tesa” verso il Partito socialista. 
L’intervento fu perciò anche un atto di politica interna, una sorta di piccolo colpo di Stato appena rivestito di forme di legalità. I pieni poteri al governo furono infatti votati da un Parlamento che, stretto tra le pressioni dell’Esecutivo e quelle della piazza interventista, [ che facilmente avrebbe potuto essere dispersa dalla polizia così come lo furono operai e contadini che analoghe manifestazioni avevano inscenato contro la guerra]  aveva oramai perduto larga parte delle proprie prerogative e delle proprie libertà” ( Fonte Giuliano Procacci storia degli Italiani).  In proposito Giolitti nelle sue memorie avrebbe scritto “ i poteri governativi avevano di fatto soppressa l’azione del Parlamento  in un modo che non aveva riscontro negli altri Stati …”
E ricorda [ chi festeggia e chi muore]
I deliranti miraggi interventisti delle “radiose giornate di maggio” e i clamori della retorica dannunziana si sarebbero ben presto dileguati con il ritorno dei primi treni ospedali e lo svanimento del mito di una guerra lampo.  L’Italia entrava in guerra psicologicamente e militarmente impreparata, già dissanguata dall’esborso finanziario per la guerra di aggressione alla Libia del 1912.
I soldati scaraventati nelle trincee - il fetido e mortifero luogo dove si consumò la prima grande esperienza collettiva e di massa dell’Italia unita da soli 50 anni - combatterono bene e  con coraggio,
compresi quei giovani socialisti, il cui Partito, almeno in alcune sue componenti, aveva vanamente condannato la guerra come lotta tra governi capitalisti e imperialisti, tutti ugualmente responsabili del conflitto e che vanamente aveva intuito che il conflitto non avrebbe risolto nessun problema e non avrebbe portato al proletariato che lutti e rovine,
compresi i fanti contadini che su un totale 5 milioni e 750 mila combattenti erano una forza pari a 2 milioni e 500.000, quasi tutti concentrati nei reparti di fanteria, corpo destinato a subire da solo il 95 per cento delle perdite, [tanto che a guerra finita gli orfani di padri caduti al fronte erano al 63% figli di contadini (Fonte Serpieri la guerra e le classi rurali)]. Al di là della vacua retorica sul patriottismo si può dire quindi dire che la classe più lontana dalla “città” e più estranea alla vita politica e civile, le cui bandiere e i cui rappresentanti sicuramente non si mescolarono alle gioiose manifestazioni interventiste di studenti e borghesi,  la classe più contraria, dunque, alla guerra pagò il maggiore tributo di sangue. I fanti contadini combatterono e morirono con la stessa rassegnata [essendo “la rassegnazione”, stante le dichiarazioni dell’insospettabile Padre Agostino Gemelli il sentimento prevalentemente diffuso nelle truppe]  e coraggiosa abnegazione con cui il mondo rurale affrontava in tempo di pace alluvioni e tempeste.
compresi i credenti di fede cattolica, alle cui orecchie, nel fango e tra i topi delle trincee, forse non giunsero nemmeno alle orecchie le parole del Papa Benedetto XV che il primo agosto 1917 pronunciò queste parole “Siamo animati dalla cara e soave speranza… di giungere quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno di più apparisce inutile strage.”
I soldati del giovane Stato italiano si serrarono nelle trincee, scalarono le montagne, cercarono calore accanto ai muli, combatterono e si scagliarono all’assalto, conoscendo anche gesti di eroico furore
malgrado il vitto del soldato italiano, inizialmente composto da 750 grammi di pane, 200 di pasta, 375 di carne , ulteriormente depauperati e razziati  dalle ruberie nelle retrovie, fosse stato ridotto alla fine del 1916 a 600 grammi di pane, a 250 grammi di pasta e ad una diminuzione della carne sostituita due volte la settimana con il baccalà, con il conseguente depauperamento calorico da 4000 a 3000 calorie, contro le 3400 dei soldati francesi e le 4000 delle truppe britanniche. ( Fonte Piero Melograni Storia politica della grande guerra)
malgrado il fatto che il trattamento economico fosse di  molto inferiore a quello delle truppe americane
 malgrado il fatto che i primi elmetti arrivarono in linea solo tra la fine del 1915 e la primavera del 1916, tanto che i fanti andavano all’assalto con il kepì di panno, i bersaglieri con il cappello privato delle piume e gli alpini con il cappello senza la penna nera per non attirare il fuoco nemico ( Fonte De Bono nell’esercito nostro ).
malgrado il fatto che nel novembre 1915 sul Carso il vestiario invernale non fosse ancora arrivato (cit. Rocca vicende di una guerra)
In un Paese pervaso di retorica risorgimentale e di dannunziani orpelli, i soldati italiani erano i peggio trattati; quelli, con maggiore accanimento, “pensati” nell’immaginario degli Stati Maggiori come “carne da macello”, e vessati dalla follia retorica degli Stati Maggiori stessi, di cui riportiamo solo tre esempi :
a)Cadorna ebbe a sostenere che il soldato italiano era migliore nell’offensiva che nella difensiva perché “nell’offensiva si ubriacava e si stordiva” (cit. Malagodi conversazioni sulla guerra),
b) la circolare del comando supremo del 24 agosto 1915 consigliava a fronte del rischio di congelamento in quota di allentare la pressione delle bende che fasciano i piedi e di “togliersi spesso le scarpe, ungendosi il viso e le mani con il sego”, pur essendo anche le candele un  genere di raro lusso nel buio delle trincee.
c) l’articolo 433 del Regolamento Militare (la famosa “libretta rossa”), mandata a memoria dalle reclute, prescriveva inoltre quanto segue: “soldato deve desiderare ardentemente l’assalto alla baionetta come mezzo supremo per imporre la propria volontà al nemico e raggiungere la vittoria, privilegiando sempre e comunque l’assalto frontale per conquistare il lauro della vittoria”, sadicamente indifferente al fatto che la guerra aveva cambiato i propri stessi connotati, e l’esercito austriaco con maggiore lucidità e sensatezza strategica andasse privilegiando la difesa flessibile e il radicale  impiego dell’artiglieria.
Mentre al fronte si combatteva e si moriva, infradiciati nelle mantelline di lana, essendo anche gli impermeabili esclusi dal vestiario della truppa, e lo Stato diventava più autoritario - le ragioni dell’esecutivo progressivamente prevalendo su quelle del potere legislativo - tutti i principali settori dell’industria lavorarono a pieno ritmo, producendo enormi profitti e spettacolari aumenti di capitale, progressivamente concentrati nel comparto siderurgico (es. Fiat).
La guerra contribuì fortemente a definire i tratti tipici del capitalismo italiano: alto grado di concentrazione familistico-territoriale, compenetrazione tra Stato e Banche, dipendenza delle ordinazioni dallo Stato, rafforzamento dei grandi trust (Ilva o Ansaldo) similari ad autentiche baronie con cui il potere pubblico si trova a dover mercanteggiare.
E ricorda [italiani contro italiani-decimazioni e fucilazioni]
Già durante l’offensiva del Trentino nel maggio 1916 e i primi sfondamenti delle linee italiane sull’altopiano di Asiago il Comando supremo per il tramite di Cadorna - 21 maggio 1916 – espressamente sostenne l’utilità e la necessità di dare una lezione di virilità, “fucilando senza processo” “chi non resista e non muoia sul posto”.
La storica e consolidata attitudine antipopolare delle gerarchie militari, costantemente preoccupate del pericolo del contagio sovversivo, si accentua negli anni della grandi guerra. (fonte Irene Guerrini e Marco Pluviano – La giustizia militare nella grande guerra in Annali della Fondazione Ugo La Malfa, 2013).
Così, le esecuzioni ebbero immediatamente inizio a partire dal 28 maggio 1916, con un primo episodio di decimazione che passa per le armi tre sergenti e otto uomini di truppa del 141° reggimento fanteria.
Anche per quanto riguarda la giustizia militare, essa si irrigidisce ulteriormente a seguito dalla circolare del Comando Supremo, la quale precisa che le condanne al carcere per reati commessi al fronte ( per le quali non è comunque previsto l’istituto della grazia regia ) sarebbe dovuta avvenire all’indomani della fine della guerra, per evitare che i combattenti trovassero rifugio dagli orrori del conflitto nelle patrie galere. La sospensione della pena è quindi solo funzionale al pieno recupero della carne da cannone.
La politica della repressione continua per il tramite del gen. Cadorna che ribadisce l’ordine di fucilare sul posto soldati o ufficiali, evitando di riversare la responsabilità dei provvedimenti repressivi sui tribunali, a suo avviso, troppo restii a pronunciare condanne a morte. I comandanti devono essere messi nelle condizioni di reprimere fulmineamente l’indisciplina delle truppe, evitando vincoli procedurali, anche perché i tribunali erano preda “dello stesso morboso sentimentalismo” del Paese e raramente pronunciavano sentenze capitali. 
Il Comando Supremo autorizza i comandi inferiori a decretare le decimazioni anche senza il parere del Comando Supremo.
A titolo esemplificativo basti ricordare il caso della Brigata Salerno 89° Reggimento i cui soldati, non soltanto furono decimati, ma vennero bombardati da artiglierie e mitraglie italiane, mentre si trovavano nella terra di nessuno tra le linee. P. 214 e successive (Piero Melograni Storia della grande guerra vol. 1).
Richiamato questo contesto repressivo e feroce, in occasione della ricorrenza del IV novembre non si taccia nemmeno circa il proliferare delle forme di autolesionismo né circa l’episodio noto sotto il nome di tregua di Natale ( anno 1915) che coinvolse in un vano tentativo di fraternizzazione tra fanti di opposti eserciti vari settori del fronte.
Nel 1917, quando tra i reparti stremati si diffuse una forte crisi disciplinare e si moltiplicarono gli episodi di rivolta e di rifiuto collettivo, mentre cresceva la suggestione del crollo dell’impero zarista e della richiesta di una pace “giusta e democratica” immediatamente avanzata nei giorni della rivoluzione dell’ottobre leninista, si assistette ad una accelerazione dell’attività dei Tribunali militari : 82.366 condanne dal maggio 1917 al maggio 1918, contro le 48.296 dei dodici mesi precedenti e le 23.016 dei primi dodici mesi di guerra.
Aumentò anche il numero dei reati di indisciplina, insubordinazione e diserzione, e si moltiplicarono reati collettivi, anche da parte di soldati sui treni in partenza per i fronti che associarono agli spari, al lancio di pietre, a insulti verso borghesi e imboscati anche le urla pacifiste. Un caso emblematico di ammutinamento rispondente ad un piano preordinato, con combattimenti tra ribelli e lealisti e uccisioni di ufficiali e carabinieri, è quello della Brigata Catanzaro a Santa Maria La Longa tra il 15 e il 16 luglio 1917 ( 141 e 142 fanteria). L’ammutinamento, domato con il classico ricorso alle decimazioni, lascia una striscia di livore, di sordo rancore e ostile sottomissione, come ebbe a notare il Duca di Aosta Comandante della Terza Armata.
I tribunali militari pronunciarono durante la guerra 101.665 condanne per diserzione, dichiararono altri 26.826 militari esenti da pena per essere spontaneamente rientrati nelle fila dell’esercito, rappresentando così un totale di 128.527 casi di diserzione.
E, concludiamo, citando la circolare n. 3525 del 28 settembre 1915 nella quale Cardona ebbe a scrivere “il superiore ha il sacro dovere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Chiunque tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere sarà raggiunto dalla giustizia sommaria del piombo dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe.”
E ricorda infine [ il dopo guerra ]
La guerra vittoriosa non aveva risolto nessun problema di quelli antichi che affliggevano la nostra nazione: un apparato produttivo concentrato e squilibrato, una macchina dello Stato improvvisata, a compartimenti stagni largamente infeudata dagli interessi dei più grandi gruppi economici, un personale dirigente tenuto insieme da una comune vocazione autoritaria, una opinione pubblica formatasi sotto il segno della guerra e della esasperazione.
Nell’aprile del 1919 Il Presidente del Consiglio Ministri Orlando e il ministro degli esteri Sonnino abbandonarono la conferenza di Parigi per protesta contro la scarsa considerazione degli interessi italiani da parte degli alleati dell’intesa.
Nasce così il mito della vittoria mutilata, e con essa il fascismo.
CONCLUSIONE :
ad avviso del Direttivo ANPI delle sezioni Onorina Pesce e Borgo Ticino il centenario della Prima Guerra Mondiale deve essere l’occasione per fare i conti con questo capitolo doloroso e rimosso dalla memoria nazionale, compreso quello relativo ai soldati italiani fucilati e comunque uccisi dal piombo di altri soldati italiani perché ritenuti colpevoli di codardia, diserzione o disobbedienza, evitando ogni orpello di dannunziana memoria.
Va sfatato “l’inconscio accordo” di intere generazioni di italiani che, festeggiando negli anni, la vittoria di Vittorio Veneto, hanno nascosto la cattiva coscienza degli Alti Comandi e di una classe politica dirigente, e coltivato il mito della grande guerra quale punto di unione della nostra Nazione, annullando la memoria di una truppa “trascinata per la gola e troppo spesso portata avanti fino alla morte dagli spettri  della polizia militare e dei plotoni di esecuzione”. ( Fonte Forcella Monticone Plotone di esecuzione – i processi nella prima guerra mondiale ed Laterza) 
Qualsivoglia iniziativa attorno al IV novembre – quale “festa della vittoria” non può prescindere da una contestualizzazione degli avvenimenti sui fronti della grande guerra, che, alla sua conclusione, contò 600.000 morti.
Evitando ogni retorico appello all’italianità e alla vittoria, e richiamandosi piuttosto all’articolo 11 della Costituzione Repubblicana, sarebbe utile fare di questa luttuosa ricorrenza una buona occasione per approfondire quanto raramente detto sulla grande guerra secondo la linea succintamente abbozzata in questo documento che altro non è se non un tentativo di ricostruire alcune verità.
Apprezziamo il fatto che, riprendendo un appello firmato da storici e intellettuali quali Alberto Monticone, Luciano Canfora, Giulio Giorello, Paolo Rumiz, Lidia Menapace,  la Camera dei deputati, a quanto siamo riusciti a capire dalle informazioni presenti in rete, abbia dato il proprio assenso ad una legge che prevede la riabilitazione d’ufficio di fucilati per reati di diserzione e per i reati in servizio, come lo sbandamento, e i fatti di disobbedienza. La legge prevede anche la affissione in un'ala del Vittoriano in Roma una targa nella quale la Repubblica renda evidente la propria volontà di chiedere il perdono di questi caduti.
Al di là dell’apprezzamento per questo provvedimento, diciamo anche che la nostra aspirazione è quella di vivere in un Paese in cui non si commettano colpe e non si producano responsabilità tanto gravi, per le quali cento anni dopo sia necessario chiedere scusa, interrogandoci sul diritto e sulla effettività legittimità che noi, vivi, abbiamo di perdonare in nome e per conto dei morti.

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