martedì 29 luglio 2014

COMANDI MILITARI e RESISTENZA



La sezione Onorina Pesce Brambilla ha elaborato e discusso il documento che vi proponiamo. La discussione è aperta.

IL REGIO ESERCITO ED IL FASCISMO
 «L'appoggio dell'esercito al governo Mussolini del 31 ottobre 1922 fu chiaro e decisivo, benché sia necessario ricordare che la svolta politica aveva il consenso della monarchia, di gran parte delle forze politiche e dei maggiori centri di potere, dagli industriali agli agrari alla chiesa cattolica. Nel governo entrarono come ministri della Guerra e della Marina i più illustri esponenti delle forze  armate, Diaz e l'ammiraglio Thaon di Revel. E quando Mussolini presentò il suo governo alla Camera dei deputati cedette il primo posto a costoro, accolti da un'ovazione come vincitori della Guerra» . G.Rochat L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Laterza 2006.


L'evidente appoggio fornito dal Regio esercito all'esecutivo mussoliniano del 1922, suggella - diradando le nebbie della retorica apartitica delle forze armate, d'ogni presunta indipendenza politica del monopolio della forza e della coercizione statale - con l'accettazione di due ministeri, le simpatie fasciste della stragrande maggioranze delle gerarchie militari. Fu il completamento  degli indispensabili aiuti concessi dai comandi periferici allo squadrismo montante. Come nel 1924, durante la prima seria crisi  del fascismo a ridosso dell' assassinio di Matteotti,  si ribadì la stretta alleanza con i 100.000 fucili forniti dall'esercito alla Milizia Volontaria. Mussolini ricambiò lasciando completa autonomia, a generali ed ammiragli, nella riorganizzazione delle rispettive forze armate, fuori da ogni controllo della politica.
Il duce non tardò, nel frattempo, a monopolizzare le cariche di ministro della Guerra prima e delle altre forze armate poi, impedendo di fatto ogni concertazione e coordinamento interforze fuori dalle sue decisioni. La stessa nomina di Badoglio a capo di stato maggiore generale nel 1925 non impedì la sua emarginazione successiva a consulente tecnico. Sino alla metà degli anni '30 l'esercito non fu attraversato da nessuna riforma e rimase sostanzialmente quello della Grande Guerra, con tutti i limiti di una mentalità ottocentesca, un alto grado di analfabetismo nella truppa, una sottovalutazione irresponsabile dell'addestramento, una disattenzione completa all'evoluzione tecnologica e del pensiero militare, un'inveterata propensione all'autoritarismo, insomma un'atavica ristrettezza mentale che venerava  e celebrava la coppia del «fante e del mulo» come centrale.
Le guerre coloniali cementarono ancor più il sodalizio tra le forze armate ed il fascismo, a partire dalla riconquista o «pacificazione romana» della Libia (1922-1931).
Le operazioni in Tripolitania settentrionale furono relativamente veloci, più lunghe nelle regioni semidesertiche meridionali. Non mancarono i più brutali metodi di «dispersione»  nonché decimazione delle tribù locali, in linea con la documentata brutalità delle tradizioni coloniali. In Cirenaica si fece però un salto di qualità, a convalida della tesi che individua nel fascismo la caratteristica di «importare nella metropoli i metodi coloniali» ma di non aver limiti poi  nelle colonie stesse. Nella lunga guerriglia di resistenza, sconfitta nel 1931 con l'inutile impiccagione di Omar al Mukhtar, non ci si limitò alla feroce repressione della popolazione locale, ma si organizzò la deportazione in campi di concentramento della popolazione del Gebel falcidiata alle fondamenta, un vero e proprio genocidio, orchestrato nei dettagli da Mussolini in persona ed avallato dagli stati maggiori.
Lo stesso si può dire per molti aspetti della guerra d'Etiopia, un fragile impero voluto più per prestigio internazionale che per ragioni di effettiva rapina coloniale.  L'invasione fu organizzata con un ingente investimento di mezzi e uomini e si protrasse dall'ottobre 35 sino al maggio del 36, mese della proclamazione dell'Impero. Le truppe, supportate da àscari eritrei e libici,  andarono oltre la distruzione dei villaggi e la razzia del bestiame sulla strada per Addis Abeba, ricorrendo nei momenti di maggior difficoltà all'uso di aggressivi chimici e gas tossici, un uso indiscriminato che colpì anche la popolazione civile. Tutto ciò in spregio della Convenzione di Ginevra. Dopo l'attentato a Rodolfo Graziani, nel frattempo nominato Viceré,  i comandi si scatenarono con rappresaglie selvagge che applicarono in anticipo il principio, poi perfezionato dalle SS naziste, di responsabilità collettiva, e in poco tempo  si passarono per le armi più di seimila civili nella solo Addis Abeba. Vale la pena ricordare che Graziani non mancò di rinnovare le crudeltà estreme della guerra di Libia incitando al massacro totale del monastero copto di Debrà Libanos, solo perché aveva ospitato per una notte un attentatore, in due giorni 450 tra diaconi e monaci, più i profughi, devoti e  mendicanti furono massacrati per ordine del generale Maletti.  A titolo di curiosità si ricorda che Graziani fece anche eliminare  tutti gli stregoni, gli indovini e cantastorie d'Etiopia in quanto potenziali informatori della resistenza abissina.

L'aggressione alla giovane Repubblica democratica spagnola a fianco della Germania nazista ed a supporto della rivolta militare di Franco vide non solo il fortissimo appoggio da parte del Vaticano, ma pure l'entusiasmo dei vertice delle tre forze armate italiane, nonostante l'emarginazione di Badoglio. Potrà sembrare eccessivo il giudizio di J.F. Coverdale ( I fascisti italiani alla guerra di Spagna, Laterza 1977, pag. 155)  che Mussolini avesse ormai «completamente sottomesso le forze armate» , però si segna sicuramente  un passaggio fondamentale, nonostante il disastro di Guadalajara, in vista della seconda guerra mondiale.
Bombardamento italo tedesco su Barcellona


Nonostante l'evidente impreparazione e il fallimento di una politica di potenza al di sopra delle reali potenzialità (solo qualcosa in più della precedente definizione di «imperialismo straccione»),  i vertici militari, con leggere differenze più di tono che di sostanza, non formularono un chiara giudizio sull'intervento nella seconda guerra mondiale, ribadirono la loro fiducia nel «genio» di Benito Mussolini e si rimisero alle sue decisioni; anche nella prospettiva, più realistica, di una guerra parallela e subordinata. E così si aprì alle future sconfitte, a quel misto di cinico avventurismo e faciloneria criminale che contrassegna l'ultima fase della politica del regime.
L'attacco alla Francia (21-24 giugno), una Francia già a pezzi, presenta un'anteprima di tutte le deficienze della guerra fascista e degli effetti tragicomici della catena di comando.  L'assurdità di un attacco improvvisato a posizioni fortificate emerge dal bilancio finale di 1300 morti, 2600 feriti e, nonostante si fosse a giugno, di 2000 congelati sulle Alpi italiane, tutti sacrificati da ordini nelle migliore delle ipotesi insensati. I morti francesi furono 40 ed i feriti 84.
Dalla guerra contro la Grecia, disastrosa in termini non solo militari e che fu superata solo dalla campagna di Russia come numero di morti, un continuo ed interminabile susseguirsi di cedimenti, arresti e tenute, con difficoltà cronica all'approvvigionamento, sino alle sconfitte navali nel mediterraneo ed in Africa, riconfermano la diagnosi di un'alleanza tra il duce e le forze armate dagli effetti esiziali: non si riusciva a garantire un rancio sufficiente in basso nella intatta garanzia di privilegi di casta per gli ufficiali. Il blocco sociale che aveva garantito la tenuta del fascismo era ormai in via di sfaldamento.

«Si ammazza troppo poco». (Nota del 4 agosto 1942 del generale Robotti, operativo in Slovenia)
Una nota particolare merita la spietata durezza dell'esercito, comandato da Mario Roatta, difronte alla guerriglia partigiana jugoslava. In genere tutta l'occupazione italiana dei balcani è stata definita come un'occupazione di tipo coloniale, con un'evidente senso di superiorità degli occupanti e manifestazioni di razzismo, fino alla deportazione di decine di migliaia di civili dall' Istria e dalla Dalmazia a scopo preventivo. Le rappresaglie del generale Roatta si ispiravano non al «dente per dente» ma al «testa per dente», arrivando in alcuni casi al rapporto 1 a 100 nelle ritorsioni. Questo ulteriore imbarbarimento si spiega anche col fatto che per la prima volta ci si trovò difronte ad una guerra partigiana sia nazionale, sia di classe, con dirigenti e quadri di buon livello, capace di cuagolare consensi crescenti e di condurre offensive di notevole portata. Una guerra vincente.

Sulla campagna di Russia la bibliografia è notevole ed è difficile una sintesi che renda conto di tutte le problematiche. Ricordiamo oltre all'altissimo numero di morti, frutto di un'organizzazione lacunosa, al fallimento evidente dei comandi, anche nella ritirata, la totale subordinazione all'alleato, convinti della sua sicura vittoria. La guerra della Germania in Russia fu condotta con metodi di ferocia barbarica verso i combattenti, i prigionieri, la popolazione, gli ebrei (il cui sterminio sistematico cominciò nelle retrovia per proseguire poi su larga scala nei lager della morte). La memoria italiana, perlopiù, dimentica questi aspetti, di cui le truppe ebbero una conoscenza limitata (e rimossa).. Le forze italiana  ebbero certamente un ruolo minore, ma effettivo, nella guerra di terrore e sterminio.


IL 25 Luglio e l'8 Settembre

Indilazionabile, ormai, l'uscita dal conflitto. Tutti si aspettavano che il re e l'esercito si muovessero.Ma l'unico gesto concreto venne da Grandi e dai gerarchi che votarono con Mussolini la notte del 24 luglio, ma anche costoro lasciarono che fosse il re a rimuovere il duce ed a gestire le modalità della transizione. Il timore fu la reazione nazista ma soprattutto quella popolare. Infatti tra il 27 ed il 30 luglio vi furono 77 manifestanti uccisi e migliaia di arresti. Ovviamente... la guerra continuava. Roatta, alla testa dell'esercito, era al corrente delle trattative di pace, dovere elementare sarebbe stato preparare le truppe allo scontro inevitabile con i tedeschi. Si abbandonò, invece, ad altisonanti appelli per una dura repressione interna ed a rivendicare il suo passato di cambattente in Spagna. I nodi venivano al pettine ed nell'alto comando la confusione era totale.
L'8 settembre 1943 l'Italia pagò sino in fondo il prezzo dell'avventurismo mussoliniano. Nel momento più tragico il potere era diviso da un piccolo gruppo di generali del regio esercito che esibirono tutta la loro incapacità di coesione, di autorità, soprattutto di orizzonti di un qualche respiro. In sostanza passivi, e più tardi capaci di mentire senza ritegno per salvarsi del giudizio negativo che li aspettava. Non c'è uno di questi generali che esca bene da queste vicende. In aggiunta non possiamo non rilevare il grandissimo impegno manifestato nel dopoguerra da tutti i vertici militari nel costruire una versione falsificata degli avvenimenti.


LA RESISTENZA

Divisione Acqui, il massacro tedesco a Cefalonia
Senz'appello ed inequivocabile è il giudizio di molti storici e partigiani sulla disponibilità a resistere del Regio Esercito dopo l'8 settembre 1943. Il massimo esperto di Storia militare, Giorgio Rochat, condensa e riassume l'atteggiamento della guerra partigiana nei confronti dei militari con la parola «diffidenza»;  ancor più marcata sarà la diffidenza delle Forze Armate nei confronti della Resistenza. Giudizio più temperato, ma non in contraddizione,  rispetto a quelli formulati nel saggio L'Esercito e il fascismo, nella silloge di AA.VV. Fascismo e Società Italiana, Einaudi, 1973: «La resistenza è la riprova del fallimento delle Forze Armate, che non tentano e non sanno inserirsi nel movimento di liberazione», ed ancor più, «l'apparato militare nel suo complesso dimostra un'assoluta incapacità di comprendere ed apprezzare la Resistenza e nulla fa per aiutarla e parteciparvi (pag.120). Giorgio Bocca, sin dalle prime pagine della sua, Storia dell'Italia Partigiana, parla di vergogna nella resa e nella fuga: « L'Esercito Regio e fascista si è disfatto rifiutando fino all'ultimo di aiutare la formazione di quello popolare».
Giaime Pintor nota con sconforto l'indisponibilità degli ufficiali a prendersi le responsabilità più elementari durante le giornate di settembre (cfr. G.Pintor, Il Sangue d'Europa, Einaudi 1975pag.180-181).
Inesorabile la conclusione, pur nella  consueta capacità di articolazione, di Claudio Pavone nell'aureo saggio Una Guerra Civile.  Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 1991: «La condanna etico-politica della guerra fascista ebbe come corollario, nei resistenti, un distacco aspro e sprezzante da quello che ne era stato lo strumento, il regio esercito, inteso sia come istituzione e classe dirigente militare, sia come stile di vita» (pag.94).
Questi erano anche i sentimenti più diffusi nella egemone base socialcomunista della guerra partigiana, non certo quelle delle formazioni autonome,  ma, come conferma sempre G.Rochat nel suo saggio Forze armate e resistenza, Italia Contemporanea n.220/221, atteggiamento «corretto dalle mediazioni di Togliatti», avversato in parte «dopo il 1945 quando il mondo partigiano si spacca, e una parte accetta la guerra fredda, l'anticomunismo e la Nato». Poi «negli anni settanta anche l'Anpi socialcomunista, nella scia della revisione della politica delle sinistre, ricupera  una posizione di disponibilità e poi interesse verso le Forze armate, rivalutandone il ruolo nazionale».
E qui sta la forzatura revisionista, nell'indiscutibile apporto che i reparti militari dispersi in Grecia e nei Balcani, nella Resistenza degli internati in Germania, nel contributo alla campagna d'Italia delle armate regolari, tutte esperienze addebitate alle Forze armate tout court, senza le distinzioni necessarie.
La  mancata epurazione al momento della riorganizzazione delle Forze armate, con reintegro di gran parte degli ufficiali che avevano militato nella Repubblica sociale e l'insabbiamento di tutti (!?) i procedimenti aperti dai tribunali militari contro i crimini di guerra commessi dalle truppe tedesche in Italia (Armadio della vergogna) basterebbero da sole a definire perlomeno come altamente problematico il rapporto forze armate e resistenza. Ma sono necessarie alcune precisazioni.
Il passaggio, difficile certamente, di alcuni reparti allo sbando, a fianco della resistenza greca e jugoslava, come delle decine di migliaia di uomini che si unirono alla Resistenza dopo l'armistizio, fu un passaggio fuori (e contro) le scelte delle precedente istituzione gerarchica, furono scelte individuali e non la reazione di una collettività organizzata allo sfascio ed alla fuga dei comandi militari.
A mascherare tali evidenza concorre anche il dato anagrafico irrefutabile: il servizio militare era obbligatorio, se si escludono i riformati, gli anziani, i giovanissimi e gli ebrei espulsi dalle Forze armate nel 1938, tutti gli altri maschi sono classificabili come militari, sia che all'8 settembre fossero alle armi, in licenza, in congedo o in prigionia. Ciò naturalmente se si tiene conto dello status giuridico e non dell'effettivo servizio.
La sorte dei militari internati in Germania è stata oscurata per alcuni decenni, una resistenza  al ricatto di un miglioramento di condizione, qualora si fosse scelta la Repubblica sociale, 600.000 militari avviati al lavoro coatto più vicini all'esperienza dell'universo concentrazionario che non a quella della classica prigionia militare. Alessandro Natta nella sua bella rievocazione, L'altra Resistenza - Einaudi, 1997, ricorda la formidabile iniezione di coraggio e dignità che le notizie della Resistenza italiana, ma pure europea, trasmise agli internati come anche «la certezza che il governo del sud non poteva essere il nostro governo, restava nella massa dei soldati e degli ufficiali uno stato d'animo di rancore, di sospetto, di disistima perché alla direzione di esso stavano gli uomini ed i gruppi ai quali si attribuiva la responsabilità non dell'armistizio ma del modo in cui esso era stato preparato e realizzato. (p.52)   
Questa pensiamo sia la conclusione migliore per il nostro contributo alla discussione.

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